La fine di una storia, in politica come nella narrativa, non segna mai una chiusura definitiva, ma piuttosto l'inizio di un altro capitolo. Se osserviamo la tragica fine di Amleto, per esempio, la morte della famiglia reale danese non chiude il dramma, ma apre la strada al principe norvegese Fortinbras, pronto a reclamare il trono. La morte del re è il segno del trionfo del nuovo regnante: "Il re è morto; viva il re". Lo stesso principio si applica agli eventi politici, dove la conclusione di un’era è seguita da una nuova narrazione, che ne definisce il futuro. Che si tratti del trionfo elettorale di Tony Blair nel 1997, che celebrava "un nuovo mattino" per la Gran Bretagna, o della campagna del Leave che ha dichiarato il 23 giugno come il "Giorno dell'Indipendenza" nel contesto della Brexit, ogni fine politica è sempre l'inizio di una nuova storia, pronta a essere scritta. La fine di un episodio in politica non solo segna il termine di una leadership, ma determina anche le possibilità e le direzioni del futuro.
La costruzione di una narrazione politica non si limita mai alla semplice esposizione dei fatti. Ogni storia politica si fonda su emozioni basilari, che determinano l'orientamento della campagna e la sua capacità di attrarre l'elettorato. Mark McKinnon, stratega politico, sostiene che ogni campagna di successo ha alla sua base un’emozione chiave: speranza o paura. Sono queste emozioni che alimentano il desiderio di cambiamento, generando conflitti e dando forma alla trama di una campagna politica. La speranza è il motore che spinge il cambiamento, mentre la paura alimenta l'urgenza di evitare il peggio. Così, dietro ogni campagna politica, si nasconde un racconto emozionale che diventa il fulcro attorno al quale il candidato costruisce la propria immagine e la propria identità.
Un esempio emblematico di come la narrazione politica funzioni secondo questo schema è rappresentato da Barack Obama. La sua storia politica è stata costruita attorno a un'emozione fondamentale: la speranza. Nel discorso di accettazione della nomina del 2004 alla Convenzione Nazionale Democratica, Obama si è presentato come un simbolo del sogno americano, incarnato nella figura di un "ragazzo magro con un nome strano" che credeva fermamente che l'America avesse un posto per lui. La speranza di un futuro migliore, di uguaglianza e di opportunità, diventava la spinta principale non solo della sua campagna, ma anche della sua identità politica. La sua autobiografia, The Audacity of Hope, ha reso questa emozione il fondamento della sua candidatura e del suo messaggio, spingendo milioni di americani a credere che un cambiamento era possibile. In questo modo, la speranza, piuttosto che una semplice aspirazione personale, è stata trasformata in un simbolo universale di possibilità politiche e sociali.
Anche Bill Clinton ha utilizzato una narrazione simile per la sua campagna del 1992. La sua storia è iniziata con le radici in una piccola città chiamata "Hope" e si è sviluppata attorno al concetto di opportunità. Il film di campagna "The Man from Hope" raccontava la sua infanzia, segnata dalla morte del padre e dalle difficoltà di crescere in una famiglia monoparentale, ma anche dalla fiducia nei valori morali e nell'importanza dell'educazione. Clinton si presentava come il prodotto di quella speranza che ogni americano nutre, con la promessa che l'America fosse una terra di opportunità per chiunque, nonostante le difficoltà.
La narrazione politica, quindi, si articola in biografie, storie personali, ma anche visioni di un futuro migliore. Le narrazioni dei candidati tendono a ruotare attorno a un’idea centrale che rappresenta un’opportunità per l’elettorato di identificarsi con il candidato stesso, di vedere in lui un esempio da seguire. L’abilità del politico non risiede solo nel raccontare una storia credibile, ma nel saperla inquadrare come un’alternativa alle attuali difficoltà, dipingendo la fine di un’era e l’inizio di un futuro promettente.
Oltre a questo, è fondamentale che il lettore comprenda come la costruzione di un’identità politica attraverso la narrazione sia strettamente legata all’uso strategico di simboli e emozioni. Il successo di una campagna non dipende solo dalla solidità delle promesse o dai dettagli politici, ma dalla capacità di evocare un’emozione potente, un legame affettivo con l'elettorato. Ogni campagna costruisce la sua "storia" attorno a un immaginario collettivo, in cui l’emozione di speranza o paura si traduce in una visione di cambiamento. È questo che crea la potenza della narrazione politica, che non è mai una semplice cronaca di eventi, ma una lotta per il futuro.
La Manipolazione Linguistica nella Politica: Un'Espressione di Potere e Controllo
La politica si gioca non solo sui fatti, ma anche sulla lingua. Le parole, come strumenti di persuasione e coercizione, sono utilizzate in modo strategico per alterare la percezione della realtà, trasformando ogni discussione in un campo di battaglia verbale. La manipolazione linguistica diventa, in questo contesto, una forma di arte politica che trascende le semplici questioni di comunicazione, influenzando le decisioni e le opinioni del pubblico.
Un esempio significativo di questa pratica si è verificato nel Regno Unito durante i complessi dibattiti legati al Brexit. La famosa frase "Brexit significa Brexit" è diventata un mantra privo di contenuto concreto, ma sufficientemente ambiguo da permettere a ciascun politico di attribuirgli il significato che meglio si adattava alla propria agenda. In questo frangente, il concetto di "significato" stesso è stato messo sotto il microscopio. Quando il governo parlava di un "voto significativo" riguardo alla legge finale del Brexit, il termine veniva utilizzato per suggerire che tale voto avrebbe potuto davvero alterare il destino della trattativa, mentre in realtà la sua efficacia era puramente simbolica. Alla fine, anche coloro che avevano lottato per un tale voto decisero di annullarlo, lasciando il processo in una condizione di incertezza eterna, senza che nessuno riuscisse a comprendere appieno il suo significato.
Allo stesso modo, negli Stati Uniti, la politica linguistica giocava un ruolo fondamentale nel definire come le persone avrebbero percepito l'operato dell'amministrazione Trump. Durante una settimana del giugno 2018, la discussione pubblica si concentrò sulla separazione forzata dei bambini dai loro genitori al confine meridionale, dove i migranti cercavano asilo. Le parole usate per descrivere i centri di detenzione, dove questi bambini venivano rinchiusi, rivelarono la volontà di nascondere la realtà della situazione. Il conduttore televisivo Steve Doocy, per esempio, cercò di minimizzare la brutalità dei recinti in cui i bambini erano trattenuti, descrivendoli come semplici "muri di recinzione a catena", un termine che suonava meno inquietante. Altri media conservatori, come Laura Ingraham, continuarono a descrivere i centri come "campi estivi" o, nel peggiore dei casi, "scuole di internato". La distorsione della realtà era evidente e finalizzata a rendere accettabili pratiche crudeli, nascondendo sotto un velo di eufemismi le sofferenze quotidiane dei migranti.
La manipolazione linguistica non si limitava ai media; anche il governo degli Stati Uniti impiegava terminologie ingannevoli. I centri di detenzione per bambini vennero descritti come "rifugi per bambini di tenera età", una locuzione che suggeriva che questi luoghi fossero stati creati per prendersi cura dei più vulnerabili. In realtà, questa era una vera e propria forma di "doublespeak", un linguaggio volutamente ambiguo e fuorviante, ideato per nascondere la realtà di prigionieri, terrorizzati e separati dalle proprie famiglie. Come ha sottolineato il linguista John McWhorter, l’uso di simili termini aveva lo scopo di mascherare la crudeltà della detenzione in campi di internamento.
Una delle più bizzarre manifestazioni di manipolazione linguistica avvenne quando la First Lady Melania Trump visitò i bambini separati dalle loro famiglie al confine con il Messico. Indossava una giacca verde con la scritta "I Really Don’t Care, Do U?", che scatenò una valanga di speculazioni mediatiche. Il messaggio, che sembrava irriverente e insensibile, venne poi spiegato dalla portavoce della First Lady come un tentativo di spostare l’attenzione dalla sua visita e sulle sue azioni concrete per aiutare i bambini. Tuttavia, pochi minuti dopo, il presidente Trump rilanciò la spiegazione, sostenendo che il messaggio della giacca fosse rivolto ai "Fake News Media", suggerendo che la giacca simboleggiasse un rifiuto della stampa. Anche in questo caso, l’uso della parola e dell'immagine contribuiva a veicolare un messaggio che serviva più a distorcere la realtà che a raccontarla.
Questi episodi dimostrano che, in politica, il linguaggio non è neutrale. Ogni scelta linguistica, ogni frase, ogni parola può essere uno strumento per costruire o distruggere significati, manipolando così la percezione collettiva. Quello che accade non è mai semplicemente ciò che viene detto, ma come viene detto. La politica è, in fondo, una battaglia per il controllo della narrativa, per decidere quale verità venga accettata e quale venga ignorata.
Un altro aspetto da considerare è l'importanza di sviluppare un pensiero critico nei confronti di ciò che viene presentato dai media e dalle istituzioni politiche. La manipolazione linguistica non è solo una tecnica di governo o di propaganda, ma una parte integrante del modo in cui le opinioni pubbliche vengono formate. Quando si ascoltano le dichiarazioni politiche o si leggono le notizie, è essenziale considerare non solo il contenuto esplicito delle parole, ma anche le implicazioni nascoste, le omissioni e le distorsioni che potrebbero esserci dietro. Una parola può sembrare innocua, ma spesso è veicolo di significati più complessi, costruiti per influenzare l'opinione e il comportamento.
Come la Politica Contemporanea è Influenzata dalla Storia e dai Media: La Manipolazione dell'Opinione Pubblica
La linea di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, tra una prospettiva legittima sulle notizie e un bias esplicito, non è né chiara né ovvia. Quando si discute dello stato della democrazia, la natura di questa linea diventa vitale. Al momento, sono in corso due processi che rischiano di complicarla ulteriormente. Uno di questi è il mettere in discussione e minare le fonti di informazione consolidate, quelle che costituiscono le tradizionali istituzioni dei media. L'altro riguarda gli effetti che le nuove forme e i nuovi processi di mediazione hanno sull'influenzamento dell'opinione pubblica, e come questi vengano sfruttati da chi desidera corrompere il sistema. Entrambi questi fenomeni sono causa di preoccupazione. Come affermano Benkler, Faris e Roberts, se l'elettorato in generale «è soggetto a manipolazione attraverso interventi sempre più raffinati, informati dalla psicologia sociale e cognitiva scientificamente testata, l'idea di una democrazia deliberativa di cittadini informati che esercitano l'autogoverno diventa una utopia». La democrazia è un sistema basato su regole, e quando sembra che le persone stiano usando modi nuovi e sottili per minare queste regole, si mette a rischio l'intero sistema. Per questo motivo, il fenomeno delle "fake news" è diventato una questione decisiva.
La narrazione politica oggi non si limita più a una semplice esposizione di fatti: essa si articola attraverso i media, che svolgono un ruolo fondamentale nel determinare come i messaggi politici vengono trasmessi al pubblico. La mediatizzazione della politica, cioè il modo in cui i media influenzano e modellano il discorso politico, è diventata una parte essenziale della politica contemporanea. I media non solo riportano i fatti, ma li interpretano, costruendo storie che non sono mai neutrali. I politici, a loro volta, cercano di trasmettere i loro messaggi attraverso questi canali, con l'intento di raggiungere e influenzare il pubblico. Ma non si tratta solo di un semplice messaggio: la politica è raccontata in modo drammatico, con una continua serializzazione degli eventi, dove ogni decisione, ogni voto, ogni dichiarazione, diventa parte di una narrazione che cresce nel tempo.
Francesca Polletta, sociologa, sottolinea che la potenza delle storie deriva dalla loro complessità. A differenza di un semplice argomento, che presenta un messaggio chiaro e diretto, le storie richiedono interpretazione. La politica, infatti, non è mai raccontata in modo lineare, ma attraverso mille filtri e punti di vista, dai politici stessi, dai media, dai loro sostenitori e dai detrattori. Ogni elemento del messaggio politico viene filtrato attraverso il sistema di credenze di chi lo condivide. La narrazione politica diventa, quindi, un processo continuo e dialogico tra il politico, i media e il pubblico. Questo scambio, purtroppo, è sempre più mediato da un flusso incessante di notizie e opinioni, dove la verità non è sempre l'elemento dominante.
Un altro aspetto cruciale della narrazione politica moderna è l'influenza che i media hanno sulla percezione pubblica. Negli anni '80, il giornalismo televisivo ha subito una significativa trasformazione, prima negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito, quando le notizie sono passate da una semplice trasmissione serale a una copertura continua, sostenuta da commentari e dibattiti. Economicamente, le notizie hanno smesso di essere un servizio pubblico obbligatorio e sono diventate un prodotto altamente redditizio. Per attrarre pubblico, la copertura delle notizie è diventata sempre più spettacolare, privilegiando la drammaticità, il conflitto e le opinioni contrastanti. Di conseguenza, l'attenzione dei media si concentra sempre più sulle lotte di potere personali, piuttosto che sugli scopi politici più ampi che le guidano.
Oggi, la battaglia per l'attenzione ha assunto una nuova forma, alimentata dalle piattaforme digitali. Come sottolinea Zeynep Tufekci, la vera valuta dell'era digitale non è più l'informazione, ma l'attenzione. Le piattaforme social come Facebook e Twitter non guadagnano solo dalla diffusione di informazioni, ma dalla capacità di attrarre e mantenere un pubblico. Questo ha portato alla diffusione di contenuti che alimentano indignazione, pregiudizi e disinformazione, sfruttando le preferenze e le convinzioni preesistenti del pubblico. Le storie provocatorie e i contenuti sensazionalistici vengono amplificati dai media tradizionali, che non possono fare a meno di riportare gli scandali e le polemiche create nei social.
Trump è un esempio paradigmatico di come la politica si sia trasformata in una continua performance mediatica. Le sue provocazioni e spettacolarizzazioni hanno reso difficile per i giornalisti non parlarne, e l'assenza di una “giornata tranquilla” nel panorama delle notizie è diventata la norma dal momento in cui ha annunciato la sua candidatura. Questa continua alimentazione di controversie e conflitti non solo ha influenzato le elezioni americane, ma ha avuto un impatto profondo sul panorama politico globale.
Infine, la disinformazione digitale, come nel caso delle "fake news" diffuse dalla Russia sulla guerra in Ucraina, è diventata una delle principali armi nelle mani di chi vuole manipolare l'opinione pubblica. I media tradizionali, purtroppo, spesso cadono nella trappola di riprendere e diffondere notizie sensazionali e manipolate, contribuendo a formare una narrazione distorta della realtà.
È fondamentale che i lettori comprendano che la politica contemporanea non può essere separata dalla sua rappresentazione mediatica. Ogni messaggio politico è un atto di interpretazione, e ogni strumento mediatico che trasmette quel messaggio ha il potere di plasmarlo, distorcerlo o amplificarlo. Inoltre, l’influenza delle piattaforme digitali e dei social media è destinata a crescere, e con essa la sfida di distinguere la verità dalla manipolazione. La democrazia moderna è strettamente legata alla qualità dell’informazione e alla capacità del pubblico di decifrarla, ma oggi, più che mai, questo compito è complicato dalla crescente fluidità tra informazione e intrattenimento.
Il Potere del "Fake News" e la Sua Rilevanza nella Politica Contemporanea
Il termine "fake news" è stato ripetutamente utilizzato in contesti politici, ma la sua evoluzione e il suo utilizzo hanno portato a una distorsione del significato originale. Sebbene la sua genesi possa essere legata a notizie palesemente false, l'espressione è diventata rapidamente uno strumento di manipolazione e di delegittimazione delle istituzioni giornalistiche. Questo fenomeno è stato accentuato dall'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, il quale ha utilizzato il termine come un'arma retorica per attaccare le informazioni contrarie alle sue opinioni. La sua strategia è stata quella di etichettare qualsiasi notizia negativa come "fake news", un modo per distogliere l'attenzione dai contenuti reali e minare la credibilità dei media tradizionali. Questo approccio ha trovato una pronta adesione tra i suoi sostenitori, con alcuni dei suoi collaboratori che lo hanno replicato in contesti pubblici, arrivando a screditare qualsiasi interrogatorio giornalistico scomodo.
Il punto culminante di questa tendenza è stato l'uso del termine per minare la legittimità della stampa in generale, rafforzando la narrazione che i media tradizionali fossero elitari, distaccati dalla realtà del cittadino comune, e incapaci di rappresentare correttamente le sue preoccupazioni. In questo contesto, la "fake news" è diventata un mezzo per attaccare la stessa essenza del giornalismo, ovvero il suo ruolo di comunicare la verità e di fare luce su eventi e situazioni rilevanti. La trasformazione del termine, da indicatore di verità errate a uno strumento di potere, è stata rapida: nel giro di pochi mesi, il suo significato si è svuotato di contenuti e si è trasformato in un potente strumento di propaganda.
Nel 2017, a pochi mesi dall'inizio della presidenza di Trump, il Parlamento del Regno Unito ha avviato un'indagine sul fenomeno delle "fake news" e sul modo di combatterlo, etichettando il termine come ormai ambiguo e inadeguato. La raccomandazione di sostituirlo con espressioni più precise, come "misinformazione" o "disinformazione", è diventata parte di un dibattito più ampio sulla necessità di comprendere meglio la natura del fenomeno e di utilizzare un linguaggio che permettesse di affrontarlo con maggiore chiarezza. Nonostante queste proposte, il termine "fake news" è ormai entrato nel vocabolario quotidiano e risulta difficile da sostituire. La sua onnipresenza è legata a due narrative principali che permeano la politica moderna.
La prima riguarda la minaccia alla democrazia derivante dalle tecnologie digitali. Il termine "fake news" incarna l'idea di una tecnologia sfrenata che minaccia la libertà umana, manipolando l'informazione in modi che sfuggono al controllo. Questo tema è diventato centrale nel dibattito pubblico, con l'idea che la diffusione incontrollata di notizie false e la manipolazione delle informazioni possano minare la capacità della società di fare scelte politiche informate. La crescente potenza delle piattaforme sociali e la rapidità con cui le informazioni vengono distorte sono visti come fattori che richiedono un intervento urgente per salvaguardare la democrazia.
La seconda narrativa, non meno potente, è quella di un'elite politica corrotta che manipola l'informazione per mantenere il controllo sulla popolazione. Questo racconto è stato abbracciato da Donald Trump, che si è presentato come un outsider, pronto a sfidare l'establishment politico e i media corrotti. La sua retorica ha fatto ampio uso del termine "fake news" per alimentare la sfiducia nei confronti delle istituzioni tradizionali, presentandosi come l'unico leader capace di portare avanti una lotta contro un sistema ingiusto e autoreferenziale.
Il termine "fake news", purtroppo, non sembra destinato a svanire facilmente, e la sua utilizzazione continua a esercitare un'influenza significativa sulla politica globale. Sebbene alcuni sostengano che sarebbe più utile usare termini come "misinformazione" o "disinformazione", la realtà è che la forza simbolica di "fake news" è troppo radicata nel discorso pubblico per essere eliminata semplicemente tramite raccomandazioni o leggi. Questo termine non è solo un'etichetta per contenuti falsi, ma è diventato un potente strumento di propaganda, un simbolo di lotta politica, e un elemento chiave nel conflitto di potere che caratterizza l'era digitale.
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