Donald Trump ha saputo sfruttare un elemento cruciale del capitalismo per legittimarsi e acquisire consenso: la creazione di una narrazione sulla "sicurezza" che si radica nelle paure e nell'insicurezza della classe lavoratrice americana. Questo messaggio ha trovato una risposta potente tra coloro che si sentivano ignorati, trascurati, abbandonati dal sistema politico tradizionale. Il discorso di Trump si è rivolto direttamente ai "dimenticati", a quei lavoratori che avevano visto il loro benessere minato dalla globalizzazione e dalle politiche economiche neoliberiste. Il suo appello era chiaro: "Io sono la vostra voce". Trump si è presentato come l'unico in grado di restituire la dignità alla classe operaia americana, promettendo politiche protezionistiche, tagli fiscali e la creazione di nuovi posti di lavoro. Ma dietro a queste promesse si nascondeva una retorica pericolosa, che mirava a fomentare paure esistenziali legate alla sicurezza e alla sopravvivenza, fondamentali per il successo del suo messaggio.

Il concetto di "sicurezza" in politica ha radici profonde nella tradizione capitalista. Da sempre, le élite hanno utilizzato la paura di un nemico esterno per giustificare il rafforzamento delle istituzioni statali e l'accrescimento del potere centrale. Un elemento cruciale di questa strategia è la costruzione di un "nemico ombrello", un avversario straniero che rappresenta una minaccia esistenziale per la nazione. Trump ha saputo capitalizzare su questo, legando la sua retorica alla paura del terrorismo, che, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, è diventato il nemico principale nella geopolitica americana.

Il terrorismo è stato infatti utilizzato come strumento per unificare il paese sotto l'egida della sicurezza nazionale. La narrazione che si è venuta a creare è quella di una minaccia permanente, che può manifestarsi in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, anche nelle città più tranquille. Il 9/11 ha segnato un punto di non ritorno in questo processo, diventando l'evento fondante per una generazione di americani che ora si definisce come quella dei "bambini dell'11 settembre". Gli attacchi alle Torri Gemelle hanno generato una paura profonda, che ha spinto milioni di persone a guardare allo Stato come unica entità capace di proteggere la propria sicurezza.

Ma il terrorismo, come il nemico per eccellenza, è una minaccia che non può mai essere davvero sconfitto. È un nemico che non ha una forma definita, che non ha un territorio chiaro da conquistare, e che può colpire in ogni momento. Questo rende il terrorismo l'incarnazione perfetta del "nemico ombrello": una minaccia che giustifica la costruzione di un apparato di sicurezza sempre più potente, che non può mai essere smantellato. Con questa narrativa, le élite possono giustificare l'espansione del potere statale, in particolare l'accrescimento del potere esecutivo. Trump non è stato l'unico a sfruttare questa strategia: già George W. Bush, dopo l'11 settembre, aveva concentrato un'enorme quantità di potere nelle mani della presidenza, dando vita a politiche autoritarie sotto la bandiera della lotta al terrorismo.

Nel contesto della guerra al terrorismo, Trump ha poi aggiunto un altro elemento: il nemico interno. Le sue politiche sull'immigrazione, in particolare quelle contro i migranti illegali, hanno alimentato un altro tipo di paura. L'idea che bande violente come MS-13, una gang salvadoregna, potessero infiltrarsi nelle comunità americane ha creato un nemico facilmente riconoscibile e temibile, da associare all'immigrazione illegale. Trump ha mescolato questi nemici interni con quelli esterni, costruendo una rete di minacce che coinvolgono il terrorismo, la criminalità e l'immigrazione clandestina, creando una narrazione coesa che rafforzava la necessità di proteggersi attraverso politiche dure.

L'efficacia di questa strategia risiede nel modo in cui la paura viene utilizzata per legittimare un sistema di sicurezza nazionale sempre più autoritario. L’idea che la sicurezza della nazione dipenda dalla protezione contro nemici visibili e invisibili permette alle élite di giustificare la creazione di un'architettura di potere che diventa sempre più difficile da contestare. La protezione delle "masse" passa così attraverso l'esercizio di un potere centrale che si rende necessario per difendere la società dalle minacce esterne e interne. Il rischio, tuttavia, è che questa retorica della paura faccia crescere un potere statale che minaccia i principi democratici, trasformando il presidente in una figura quasi assoluta, come dimostrato dal comportamento autoritario di Trump, che si è spesso presentato come un sovrano non soggetto alle leggi, esemplificato dalla sua affermazione sulla possibilità di "perdonarsi" da solo.

La lezione fondamentale che emerge da questa narrazione è che la sicurezza, quando viene usata come leva politica, può facilmente diventare uno strumento di controllo e manipolazione. La paura, infatti, non è solo un'emozione che spinge alla protezione, ma può essere anche un potente mezzo di coercizione. Chi riesce a definire il nemico e a promuovere la narrazione della sua minaccia è in grado di consolidare il proprio potere, mettendo in atto politiche che minano la libertà e l'autonomia individuale.

Qual è il prezzo della sicurezza? L'impatto della competizione e della paura nella società capitalista

Il capitalismo impone una competizione costante tra individui, in ogni fase della vita, e il mondo accademico ne è una testimonianza chiara. Gli studenti, fin dai primi anni di scuola, si trovano a doversi confrontare con una realtà in cui la rivalità non è solo tra gruppi diversi, ma spesso tra persone che condividono lo stesso background etnico, religioso o di genere. La necessità di ottenere risultati migliori rispetto ai compagni di classe genera un clima di diffidenza generalizzata, che permea ogni interazione. Non si tratta di odio, ma di un continuo stato di allerta, dove la condivisione delle conoscenze diventa un atto rischioso, temendo che qualcuno possa trarne vantaggio a proprio discapito. La cultura studentesca, quindi, si fonda su una paura silenziosa, che non riguarda solo la competizione per il voto migliore, ma anche per l'accaparramento delle risorse future, come i posti di lavoro.

Questa dinamica di competitività non è confinata solo all’ambiente universitario, ma si estende anche al mondo del lavoro. In un sistema economico capitalista, ogni lavoratore diventa, inevitabilmente, un concorrente degli altri, e questo non avviene solo tra categorie diverse, ma anche all'interno della stessa classe sociale. I lavoratori bianchi competono tra loro, così come i lavoratori neri, e non è raro che si alimentino rivalità che vanno ben oltre il luogo di lavoro. Un esempio di ciò è la reazione di alcuni lavoratori dell'acciaieria di Granite City, in Illinois, dove l'introduzione di dazi sulle importazioni di acciaio ha provocato la gioia di una parte dei lavoratori, che vedevano nel ritorno di alcuni posti di lavoro una speranza per il proprio futuro. Tuttavia, la stessa misura ha avuto un effetto devastante su altri settori industriali, creando una divisione tra coloro che beneficiavano della politica e quelli che ne erano danneggiati. In questo scenario, non c'è spazio per la solidarietà tra i lavoratori: la competizione tra di loro è alimentata da un sistema che li costringe a proteggere il proprio interesse immediato a scapito degli altri.

Un altro aspetto centrale di questa società capitalista è la creazione di una "paura dell'altro", che viene sfruttata per generare profitto. Le compagnie di sicurezza domestica e i produttori di armi sono esempi evidenti di come il timore dell'invasione dell'intimità e della sicurezza personale possa essere trasformato in un'opportunità economica. Le pubblicità delle società di sorveglianza, per esempio, dipingono scenari di donne che vivono nella costante paura di essere derubate o aggredite, e offrono loro soluzioni tecnologiche per difendersi. La promessa di sicurezza si basa sulla paura del pericolo esterno, con la convinzione che la protezione sia possibile solo tramite il controllo totale del proprio ambiente. In un contesto simile, le vendite di sistemi di sorveglianza esplodono, alimentando un mercato che prospera sulla vulnerabilità.

Anche l'industria delle armi alimenta questa stessa paura. Il National Rifle Association (NRA), che rappresenta i produttori di armi, ha fatto fortuna promuovendo l'idea che ogni individuo debba armarsi per proteggersi. La sicurezza personale diventa così un affare in cui ogni membro della società è, di fatto, visto come una potenziale minaccia. Lo slogan iconico della NRA, "L'unica cosa che può fermare un cattivo con un'arma è un buon uomo con un'arma", evidenzia come la paura venga canalizzata in una forma di protezione personale, dove l'arma diventa simbolo di potere e controllo. La crescente richiesta di armi da fuoco non si limita solo agli uomini, ma si estende anche alle donne, a causa delle preoccupazioni legate alla violenza domestica e alle molestie. La vendita di pistole per donne, presentate come oggetti di difesa e empowerment, è un altro esempio di come la paura venga monetizzata, creando nuovi mercati inaspettati. Non solo, ma la cultura della sicurezza è talmente radicata che anche all'interno delle famiglie, dove la paura dovrebbe essere minima, si sviluppano dinamiche di sfiducia e violenza.

Infine, uno degli aspetti più preoccupanti di questa competizione alimentata dalla paura è la frattura sociale che ne deriva. In un mondo dove ogni individuo è visto come un potenziale nemico, le relazioni si deteriorano e la coesione sociale si sgretola. La solidarietà tra le persone diventa difficile, se non impossibile, quando ciascuno è costretto a combattere per la propria sopravvivenza. La sicurezza, quindi, non è solo una questione fisica, ma anche psicologica e sociale, e il costo di questa sicurezza diventa un prezzo che molti sono disposti a pagare, pur di non sentirsi vulnerabili.

In questo contesto, la competizione e la paura non sono solo fenomeni isolati, ma parte di un sistema che li sfrutta per mantenere l'ordine e il controllo. La crescente divisione tra individui, classi e settori sociali non fa che rafforzare il potere delle élite, che prosperano su un mercato dominato dalla paura e dalla rivalità. La vera sfida, quindi, è riuscire a vedere attraverso questa narrativa della paura e della competizione, per costruire una società che non si basi più sulla divisione e sull'individualismo, ma sulla solidarietà e sul benessere collettivo.

Come è strutturata la disuguaglianza sociale nel capitalismo moderno?

Il sistema capitalistico contemporaneo si presenta spesso con un’apparenza meno rigida e più democratica rispetto al passato, ma sotto questa facciata si celano ancora profonde divisioni di ricchezza e potere che sembrano invariabili. La percezione diffusa è che siamo riusciti a superare le antiche stratificazioni sociali, ma in realtà la realtà quotidiana conserva molte delle stesse dinamiche di esclusione e disuguaglianza. Le popolari serie televisive come Upstairs Downstairs e Downton Abbey hanno avuto successo proprio perché mettono in luce questa persistenza, mostrando una convivenza tra ricchi e poveri che, seppur in forme moderne, rimane sorprendentemente familiare e accettata come "normale".

La struttura del capitalismo può essere vista come una grande casa divisa in piani sociali, dove la classe capitalista dominante risiede nei piani alti, controllando i mezzi di produzione e accumulando profitti, mentre la vasta classe lavoratrice si trova nei piani inferiori, spesso in condizioni di insicurezza economica e precarietà. Questa divisione non è un accidente del sistema, ma ne è un elemento costitutivo. Karl Marx denunciò come il capitalismo fosse un sistema permanente di divisioni verticali, un "upstairs/downstairs" nel quale la borghesia capitalista domina e sfrutta la classe lavoratrice. Gli stessi sostenitori del capitalismo, da Adam Smith a Milton Friedman, riconoscono che l’ineguaglianza è insita nel sistema, ma la giustificano come motore di prosperità e libertà, ritenendo che solo i più meritevoli e creativi meritino di salire le scale sociali, mentre gli altri debbano restare nei piani bassi.

La società americana, esempio emblematico, rispecchia perfettamente questa metafora. All’ultimo piano vivono i miliardari e i grandi capitalisti, quella élite dell’1% che esercita un potere enorme sia economico che politico. Al di sotto di loro, su una sorta di mezzanino, si trova la classe professionale e manageriale, spesso chiamata la “nuova classe”, formata da medici, avvocati, professori, giornalisti, che possiede una ricchezza e un’autorità considerevole e che funge da intermediario tra l’élite e le masse popolari. Questo gruppo, pur distinto dalla classe lavoratrice, tende a consolidare la propria posizione attraverso meccanismi di esclusione culturale ed economica, rafforzando così la gerarchia sociale.

Infine, al piano terra e nei seminterrati della casa si trova la maggioranza della popolazione: i lavoratori, spesso sottopagati, indebitati e in condizioni di crescente vulnerabilità economica. Qui vivono milioni di persone che, ufficialmente considerate "classe media", si trovano invece in situazioni di povertà relativa o assoluta, con difficoltà di accesso a servizi essenziali e poche prospettive di mobilità sociale. Nel seminterrato, in condizioni ancora più drammatiche, si trovano i poveri più disperati, inclusi disoccupati cronici, persone di colore e immigrati senza documenti, spesso esclusi dai diritti e dalla partecipazione piena alla società.

Le scale sociali, celebratissime come simbolo del cosiddetto "sogno americano", sono in realtà ripide, tortuose e spesso sorvegliate da barriere invisibili ma potenti, che impediscono a molti di salire. L’immagine di Donald Trump che scende una scala dorata, simbolo di un’ascensione apparentemente possibile e meritocratica, è allo stesso tempo emblematica e ingannevole: pochi riescono a salire, e molti restano bloccati nei piani bassi o addirittura nel seminterrato.

È fondamentale comprendere che questa architettura sociale non è solo una questione di ricchezza materiale, ma coinvolge anche forme di potere, riconoscimento e legittimazione culturale. La legittimazione dell’ineguaglianza passa attraverso narrazioni che attribuiscono valore morale ai ricchi e colpe ai poveri, creando un ordine sociale che si autoriproduce e si giustifica. Inoltre, la presenza di una "classe manageriale" intermedia con ruoli ambivalenti contribuisce a rendere la struttura più complessa e difficile da decostruire.

Oltre a queste dinamiche economiche e sociali, è importante sottolineare che la disuguaglianza ha profonde implicazioni politiche e culturali. Essa determina chi ha voce, chi può influenzare le decisioni pubbliche e quali ideologie diventano dominanti. Per capire il presente e immaginare un futuro più equo, è necessario riconoscere come queste strutture di potere e disuguaglianza siano radicate e come si manifestino in molteplici dimensioni della vita sociale.

Perché la narrazione del veterano sputato persiste nonostante l’evidenza contraria?

L’immagine del veterano che viene sputato al suo ritorno da una guerra, in particolare dal conflitto in Vietnam, è una leggenda persistente che si radica profondamente nella cultura americana, nonostante ricerche rigorose abbiano smentito queste storie. Indagini come quelle presentate in The Spitting Image dimostrano che gli attivisti contro la guerra non attaccarono né sputarono sui soldati che rientravano. Al contrario, molti oppositori del conflitto cercarono di reclutare quei veterani per sostenere la loro causa pacifista. Un sondaggio del 1971 mostrò che il 99% dei veterani ricevette un’accoglienza amichevole da parte di amici e familiari, e il 94% sperimentò una ricezione altrettanto cordiale dai coetanei, proprio quel gruppo demografico da cui si suppone fossero partiti gli sputi.

Questa narrazione del “veterano sputato” si inserisce in un contesto storico più ampio di miti nazionali e simbolismi legati alla sconfitta e al tradimento. Come osserva Lembke, l’atto di sputare ha una lunga storia simbolica nelle leggende di tradimento. Nel Nuovo Testamento, ad esempio, i seguaci di Cristo sputarono su di lui per rinnegare la loro fedeltà. Dopo la Prima Guerra Mondiale, in Germania, circolarono racconti simili di soldati che venivano sputati dalle donne, un mito parte della “legenda del colpo alla schiena” (Dolchstosslegende), che attribuiva la sconfitta militare a un tradimento interno.

Il fatto che questa immagine persista negli Stati Uniti suggerisce una profonda inquietudine culturale rispetto alla guerra in Vietnam e alla percezione di una sconfitta nazionale traumatica. Questi miti alimentano una narrazione nostalgica e un desiderio di “restaurare” un’America idealizzata, riflesso di un popolo ferito, in cui si intrecciano manifestazioni pubbliche di nazionalismo, mascolinità armata e spettri di tradimento interno.

La narrazione dominante delle guerre statunitensi come eroiche difese contro nemici esterni è raramente contestata dall’interno, proprio perché il movimento pacifista americano, già indebolito a partire dall’era Reagan, ha progressivamente rinunciato a mettere in discussione lo scopo stesso dell’imperialismo militare statunitense. I residui del pacifismo e della sinistra americana si sono trovati relegati a criticare solo le tattiche o gli errori, ma non gli obiettivi strategici o l’egemonia stessa, accettando implicitamente la nobiltà della causa americana e la sacralità del sostegno alle truppe. Questo atteggiamento si estende oltre il conservatorismo, penetrando anche in settori liberali e della sinistra moderata, che temono di essere marchiati come “nemici interni” se criticano apertamente la militarizzazione.

Il caso di Cindy Sheehan, madre di un soldato caduto, o di Edward Snowden, ex agente dell’intelligence, illustra come si richiedano credenziali militari o personali legittimanti per poter sfidare le politiche di guerra senza essere accusati di antipatriottismo. Inoltre, figure come John McCain e Captain Humayun Khan vengono universalmente venerati come esempi di virtù morale e sacrificio, nonostante la complessità e le contraddizioni delle loro storie, perché incarnano l’ideale di eroismo militare americano. Questo meccanismo protegge la narrazione di fondo e rende difficile per la sinistra denunciare l’intero apparato senza essere isolata o delegittimata.

La fusione della “storia della sicurezza” con la cultura politica americana ha permesso agli élite di mobilitare settori conservatori, come gli evangelici e i sostenitori dei cosiddetti “valori familiari”, per attaccare progressisti e sinistra come nemici della nazione. Il paragone con la Germania degli anni ’30, in cui il nazismo demonizzò la sinistra urbana come traditrice della patria rurale e “tradizionale”, è inquietante. Quel rifiuto della sinistra condusse a catastrofi umanitarie e alla distruzione della stessa nazione tedesca. In modo analogo, la sinistra americana si trova oggi divisa e indebolita, incapace di articolare un discorso che unisca tutti i settori popolari, inclusi i lavoratori delle regioni industriali in declino e le classi popolari bianche del Sud, che si sentono ignorate o disprezzate dalle élite progressiste urbane.

Sociologi come Arlie Russell Hochschild hanno dimostrato che oltrepassare la “barriera dell’empatia” è possibile, e necessario: ascoltare il senso di offesa e alienazione dei conservatori religiosi e operai del Sud può creare un terreno comune di comprensione e, potenzialmente, di collaborazione politica. Il risentimento verso gli insulti percepiti da parte dei liberal verso “rednecks” o bianchi del Sud è reale e alimenta la polarizzazione. Riconoscere la dignità e il vissuto di questi gruppi può aprire spazi di dialogo e rafforzare un fronte progressista più inclusivo.

La sinistra deve imparare a raccontare una storia di sicurezza universale che parli a tutte le identità culturali e sociali, senza demonizzare o escludere. Solo così potrà contrastare efficacemente la narrazione militarista e nazionalista dominante, e proporre un’alternativa che non sia solo critica della guerra, ma che offra una visione di giustizia sociale, pace e solidarietà condivisa. In questo senso, la leggenda del veterano sputato non è solo una falsità storica, ma un sintomo di una ferita culturale che riflette la difficoltà americana di affrontare il proprio passato bellico e i suoi effetti profondi sulla società.

È fondamentale comprendere che queste narrazioni simboliche, e la paura interna che le sostiene, influenzano ancora oggi la politica e la società americana, impedendo una vera riconciliazione e una critica radicale del militarismo. La sinistra deve quindi uscire dalla paura di essere etichettata come “nemica della patria” e recuperare il coraggio di mettere in discussione le radici strutturali del potere militare e imperialista, con uno sguardo capace di includere e comprendere le diverse realtà sociali e culturali del paese.