Samarra, 856. Non si può negare l'odore di decadenza che pervade le vastità di questa città, eppure il suo splendore è innegabile. La figura del califfo, a cui tanto si aggrappano i sogni di potere e di gloria, sembra ormai smarrita in una spirale di vanità. Le mura di questo luogo sono come una maschera che nasconde una realtà ben diversa da quella che si vorrebbe raccontare. Ogni angolo di Samarra parla di un mondo che, nonostante le apparenze, sembra mancare di sostanza. Le strade polverose e i quartieri residenziali uniformi raccontano di una città che non ha radici, di una popolazione che si sente sospesa tra le sue stesse ambizioni e le difficoltà di costruire qualcosa di duraturo.

Il palazzo del califfo, un centro di potere e di intrighi, sembra lontano dalle immagini di vita quotidiana di questa città che non riesce ad avere una vera anima. I mercati, pur pieni di ricchezze e di merci provenienti da terre lontane, non sono mai riusciti a cogliere la vitalità che si respira in altre città, come Aleppo o Damasco. Il lusso che portiamo con noi, dal vetro soffiato della costa mediterranea alle sete finissime di Aleppo, non è sufficiente a mascherare la sensazione di vuoto che aleggia tra le case costruite con la medesima forma, come se la città fosse stata modellata in un unico stampo.

Mentre mi perdo tra le stanze riccamente decorate con stucchi, l'occhio non può fare a meno di soffermarsi sulle forme inconsuete di queste decorazioni. Le linee ondulate, i contorni che non sembrano appartenere a niente di definito, mi fanno pensare a un'idea di bellezza che sfida la comprensione. A differenza di altre decorazioni che raccontano storie di piante, alberi e viti, queste strutture sembrano in costante movimento, fluide come il vento che scuote la sabbia. C'è qualcosa in queste linee che sfida ogni tentativo di fissarle in una forma definitiva. Mi chiedo se non siano proprio queste forme a rappresentare la confusione e l'incertezza che caratterizzano la città stessa. La sensazione che mi accompagna, mentre esploro queste stanze, è che Samarra, come le sue decorazioni, sia un luogo dove nulla è stabile, dove l'equilibrio è solo apparente e dove ogni cosa sembra minacciata dall'imminente caduta.

Le parole di Abu Zayd risuonano nella mia mente, mentre camminiamo lungo le vie della città: “Non perdete troppo tempo a Samarra. C'è denaro, c'è potere, ma presto nulla avrà più senso”. La verità di queste parole si fa strada dentro di me, man mano che osservo la maestosità del minareto che svetta sopra la città. Un minareto che, nella sua imponente bellezza, tradisce la sua funzione originale. Non è più un semplice punto di riferimento per la preghiera, ma un simbolo del potere terreno del califfo. È come se la struttura stessa fosse il riflesso di un uomo che, nel tentativo di imporsi come padrone della città, cerca di piegare la natura stessa dell'architettura a un proprio desiderio di grandezza.

Nel cuore di Samarra, tra il lusso che ammanta le strade e l'ambizione che pervade i palazzi, c'è però un silenzio che grida di fallimento. Le costruzioni, imponenti ma fragili, sembrano erette senza fondamenta, come se la città fosse un castello di carte pronto a crollare alla prima folata di vento. La sensazione che provo è che la città, come il suo califfo, non abbia mai saputo come radicarsi veramente nella terra che la ospita. La sua grandezza è solo apparente, una finta solidità che nasconde il vuoto sotto la superficie.

Eppure, nonostante questa sensazione di instabilità, ci sono anche tracce di bellezza e di verità, come quelle che si trovano nei dettagli più nascosti delle decorazioni di stucco o nella luce che filtra attraverso le colonne di una moschea. I luoghi sacri, come la moschea di Qayrawan, sono spazi che non si lasciano facilmente piegare alla frivolezza del potere umano. Le colonne che si ergono come alberi in una foresta di pietra, le ombre che si intrecciano con la luce dei lampioni, evocano un senso di eternità che sfida le logiche del mondo terreno. La vastità della moschea sembra voler racchiudere l'immensità di un universo che va oltre le miserie quotidiane.

Lungo le strade di Samarra e Qayrawan, dove l'architettura si fa poesia, si nasconde una verità che non può essere ignorata. La città, sebbene intrisa di potere e ambizione, è anche un luogo di transizione, dove il passato e il futuro si fondono in una lotta incessante per trovare un equilibrio. In questi luoghi, in apparenza dominati dalla ricchezza e dall’opulenza, c'è una lezione fondamentale: che la vera grandezza non risiede nella magnificenza visibile, ma nella capacità di comprendere il delicato equilibrio tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile, tra ciò che dura e ciò che è destinato a svanire.

Qual è il legame tra arte, commercio e religione nelle moschee dell’Oman del XVI secolo?

Il viaggio nella città di Nizwa, nel 1531, porta con sé la scoperta di una straordinaria fusione tra arte, commercio e spiritualità, visibile in ogni angolo delle strutture locali, inclusi i luoghi di culto come la moschea di Shawadhina. Qui, l’architettura religiosa si mescola con le tradizioni artigianali, creando una testimonianza tangibile di come i beni provenienti da terre lontane si intrecciano con le credenze locali. In questo contesto, la bellezza del mihrab, decorato con stucchi e porcellane cinesi, diventa un simbolo dell’influenza del commercio sulla cultura e sull’arte sacra.

Le moschee dell’Oman, come quelle in molte altre regioni musulmane, sono spazi che vanno oltre la semplice funzione religiosa. In esse si riflettono secoli di interazioni commerciali che hanno portato beni preziosi, come la porcellana cinese, a far parte dell’arredo sacro. Un esempio eclatante di questa fusione si trova nel mihrab della moschea di Shawadhina, dove frammenti di piatti cinesi, decorati con disegni blu e bianchi, sono incorporati nel stucco che orna la parete qibla. Il fatto che questi oggetti non siano semplici decorazioni, ma piuttosto rappresentazioni tangibili di un collegamento tra Oriente e Occidente, racconta di come le rotte commerciali abbiano influenzato le pratiche artistiche e religiose.

Il mihrab, che raggiunge l’altezza di due uomini, è adornato da intricati motivi geometrici e floreali che rimandano a tessuti e tappeti, ma anche alla ricchezza dei commerci che attraverso il mare collegavano l’Oman al subcontinente indiano e alla Cina. I frammenti di porcellana inseriti nel stucco non sono scelti a caso: questi vasi e piatti erano preziosi, non solo per la loro bellezza, ma anche per le leggende che li circondavano. Si diceva che alcuni di questi oggetti cinesi avessero la capacità di rilevare veleni, un racconto che alimentava la fascinazione per questi beni rari e costosi. La loro presenza nella moschea, quindi, non è solo una questione di ornamento, ma un simbolo di protezione e di benedizione, un segno che la prosperità derivante dal commercio era vista come un dono divino.

Salih al-Amiri, un commerciante locale, ha svolto un ruolo fondamentale nel finanziamento di questa ristrutturazione. Nonostante la sua carriera commerciale, Salih considera il suo operato come una forma di servizio alla comunità. La sua affermazione che il profitto del commercio dovrebbe tornare alla comunità è un punto importante, poiché riflette la visione che il benessere collettivo deve essere sostenuto anche attraverso la ricchezza materiale. La sua dichiarazione sulla costruzione del mihrab e sull’uso di beni pregiati per abbellire la moschea dimostra come l’arte sacra sia il prodotto di un incontro di valori culturali, religiosi e commerciali.

Tuttavia, non è solo l’estetica che caratterizza queste opere. Anche il significato simbolico di questi oggetti e decorazioni ha un impatto profondo. Ad esempio, i motivi geometrici del mihrab, pur sembrando simili a quelli delle stoffe indiane, sono il risultato di un processo culturale e commerciale che ha modellato la regione. L’influenza delle rotte commerciali transoceaniche, che portano beni come la porcellana e le spezie, diventa parte integrante della cultura locale. Ogni piatto o frammento di porcellana racconta una storia di viaggi, di scambi tra culture diverse e di come questi beni siano stati trasformati in simboli di potere e ricchezza.

Il concetto di "bidʿa", o innovazione che non è stata praticata ai tempi del Profeta Muhammad, gioca un ruolo fondamentale nel dibattito teologico che si svolge attorno alla costruzione delle moschee. Salim, uno dei personaggi che accompagna il protagonista, sottolinea come nella tradizione Ibadita – predominante in Oman – l’assenza del minareto sia considerata un atto di rispetto verso le pratiche originali del Profeta. La discussione sull’utilizzo del minareto e sulla legittimità di determinate innovazioni architettoniche rivela un aspetto interessante della religiosità dell’epoca, che non si limita a un semplice atto di devozione, ma si intreccia con profonde riflessioni teologiche su ciò che è stato sancito come corretto e ciò che è visto come deviazione.

La vita quotidiana di Nizwa, così come le pratiche commerciali che vi si svolgevano, riflettevano una continua tensione tra tradizione e modernità. L'uso di materiali e tecniche importate, come la ceramica cinese, non solo arricchiva l'arte locale, ma sottolineava anche l'interconnessione tra il commercio e le credenze religiose. La presenza di queste porcellane nella moschea non era un atto di vanità, ma piuttosto una manifestazione tangibile di come la religione e la cultura fossero permeate dall’economia globale dell’epoca. In un mondo in cui la ricchezza non si misurava solo in oro e argento, ma anche in beni che portavano con sé storie di terre lontane, le moschee divenivano non solo luoghi di preghiera, ma anche custodi di un'eredità culturale globale.

Come l'Arte Islamica Racconta la Storia: Dalla Creazione alla Trasformazione dei Significati

Negli ultimi anni, numerosi musei di fama internazionale hanno rinnovato le loro gallerie dedicate all'arte islamica, affrontando con nuove modalità la questione di cosa esporre, inclusa la varietà della cultura visiva islamica moderna e contemporanea, nonché come trattare la provenienza incerta di molti manufatti. Questi ambiziosi progetti curatoriali mostrano un impegno attivo con la problematica storia iniziale della storia dell'arte islamica, dell'archeologia e del mercato dell'arte per gli oggetti islamici. Tuttavia, restano inevitabilmente interrogativi su quale possa rappresentare un nucleo stabile di tipi di oggetti o monumenti in grado di illustrare, per il lettore generale, i principi fondamentali dell'arte islamica, dal VII secolo fino ai giorni nostri. Sebbene sia presuntuoso affermare che questo libro possa risolvere tali problematiche, ritengo che rimanga un tentativo valido quello di abbracciare la gamma di media trattati nell'arte islamica, fornendo allo stesso tempo gli strumenti per apprezzare cosa renda ogni singolo oggetto degno di analisi.

Il titolo di questo libro si ispira a quello di Ernst Gombrich, "The Story of Art", pubblicato per la prima volta nel 1950 e giunto alla sedicesima edizione. Gombrich apre il suo lavoro con una frase provocatoria: "Non esiste l'Arte. Esistono solo gli artisti". Un modo per affrontare questa affermazione potrebbe essere quello di concentrare l'attenzione sui praticanti abili, o "artisti", benché questo termine, culturalmente specifico, dovrebbe essere ampliato per includere tutti gli artigiani che realizzano oggetti con qualità estetiche significative. L'arte esiste all'interno della società umana, richiede un pubblico e un contesto sociale e culturale in cui può operare. Gombrich accompagna i lettori in un viaggio che va dalle prime pitture rupestri ai tempi moderni, fornendo illustrazioni di ogni oggetto discusso. La sua prosa concisa e chiara presenta idee complesse in modo accessibile, ma alcuni lettori contemporanei potrebbero criticare l'accento eurocentrico, il disequilibrio di genere e la relativa scarsità di considerazione per le prospettive delle minoranze.

L'inclusione della parola "storia" nel titolo è significativa, in quanto implica non solo che l'arte nel suo complesso possa essere concepita come una narrazione, ma che anche le singole opere d'arte abbiano storie da raccontare. Questo riconosce che l'arte, qualunque ne sia la definizione, è realizzata in un momento particolare, ma può continuare a esistere ben oltre la scomparsa della società che l'ha prodotta. Gli oggetti che sopravvivono attraverso questo lungo ciclo di vita tendono ad essere reinterpretati da successive società, talvolta utilizzati in modi che i loro creatori e committenti non avrebbero potuto prevedere. Possono anche essere adattati o modificati: un nuovo quadro per un dipinto, o decorazioni aggiuntive applicate alla superficie di un oggetto, o persino trasportati in un nuovo spazio, come nel caso di un’opera trasferita da un santuario a una galleria o museo. Ciò ha dato origine alla pratica accademica di scrivere "biografie degli oggetti", seguendo come gli oggetti si spostano, cambiano funzione e subiscono trasformazioni fisiche nel corso dei decenni o dei secoli.

Il libro che proponiamo si presenta come un tentativo di tracciare un percorso attraverso la storia dell'arte e dell'architettura islamica sotto forma di narrazioni immaginate. Alcune di queste storie si svolgono nel momento in cui un determinato oggetto d'arte viene realizzato o completato, suggerendo modi in cui il pubblico potrebbe aver interagito con gli autori delle opere e con coloro che le avevano commissionate o supervisionate. Le altre narrazioni trattano invece dell'apprezzamento degli oggetti o degli edifici dopo la loro conclusione, a volte dopo solo pochi anni, altre volte decenni o secoli. Questo consente di discutere come i significati attribuiti all'arte cambiano nel tempo e come gli oggetti e gli edifici possano essere adattati o modificati da nuovi proprietari. La struttura del libro è suddivisa in cinquanta capitoli, ognuno dei quali è ambientato in un luogo e in un periodo specifico, dal secondo dopoguerra del VII secolo fino al XXI secolo.

Un elemento chiave di queste narrazioni è il loro legame con la figura dell'artigiano e del committente, nonché con il contesto storico e sociale che dà forma alla produzione artistica. La centralità dell'artigianato nel mondo islamico, infatti, non si limita alla creazione di oggetti estetici, ma riflette anche le complesse dinamiche di potere, fede e scambio culturale che attraversano secoli e continenti. L'arte islamica, purtroppo, è stata troppo a lungo soggetta a fraintendimenti e stereotipi, che non riescono a cogliere appieno la ricchezza delle sue tradizioni e innovazioni. La narrazione che questa storia cerca di costruire mira a superare queste semplificazioni, mostrando l'evoluzione della produzione artistica nel mondo islamico come un fenomeno in continua trasformazione.

Inoltre, è importante comprendere che l'arte islamica non esiste in una bolla isolata: essa è stata continuamente influenzata e modellata dalle interazioni con altre culture, sia attraverso le rotte commerciali che attraverso le migrazioni e le conquiste. Oggetti e monumenti, una volta trasferiti da un luogo all'altro, acquisiscono nuovi significati e funzioni, spesso in un contesto religioso o politico diverso da quello per cui erano originariamente stati concepiti. L'arte, dunque, non è mai statica: essa è il risultato di un costante dialogo tra passato e presente, tra tradizione e innovazione, che si riflette nei luoghi in cui vengono esposti gli oggetti e negli occhi di chi li osserva.

Come le parole scrivono sulla pelle: l'arte di Lalla Essaydi e la memoria visiva

Le immagini di Lalla Essaydi sono intrise di una potenza silenziosa, dove l'arte e la cultura si intrecciano in una danza complessa di significati nascosti sotto il velo delle parole. Le sue fotografie, caratterizzate da colori smorzati che sfumano in toni di bianco, crema e marrone, ricordano le vecchie immagini in seppia, ma sono al contempo un’interpretazione contemporanea della tradizione e della memoria. L'assenza di vivaci contrasti cromatici crea un'atmosfera di intimità e riflessione, dove il corpo femminile, pur essendo un soggetto centrale, è circondato da una trama di parole che ricoprono tutto: i vestiti, la pelle, i muri.

Il suo lavoro, come la serie Les femmes du Maroc, rivela la posizione della donna in un contesto di tradizione e modernità. La figura centrale di queste fotografie non è mai completamente rivelata. Indossa abaya, hijab o niqab, e il suo volto è parzialmente nascosto. Questo anonimato, però, non sottrae potere alla figura. Anzi, aumenta la sensazione di presenza e di scrutamento, come se la figura stesse comunicando qualcosa di profondo attraverso il suo silenzio. Le parole che decorano la sua pelle, che si snodano in curve intricate, non sono semplicemente ornamentali: sono una parte integrante della sua identità, della sua storia, della sua cultura. Queste scritte, spesso incomprensibili, si insinuano sotto i vestiti e sui corpi come un racconto senza parole, un dialogo che non può essere facilmente decodificato ma che, allo stesso tempo, parla direttamente alla percezione del pubblico.

Le parole, in questo contesto, non sono solo simboli di lingua o comunicazione, ma anche di oppressione, definizione e delimitazione. Scrivere su un corpo, sulla pelle, è un atto di controllo, di identità, di marcatura. Ma in Essaydi, queste parole non oppressano. Piuttosto, sembrano creare uno spazio protetto, un amuleto che circonda la figura, che la preserva. Il corpo diventa il supporto della memoria, una memoria che non si perde mai completamente. Le parole che scompaiono con il tempo, che svaniscono dalle superfici su cui sono scritte, continuano a persistere nell'aria, invisibili ma presenti.

Questa dinamica tra il visibile e l'invisibile è fondamentale per comprendere l'arte di Essaydi. Le sue fotografie non sono solo istantanee, ma anche riflessioni sul tempo, sulla memoria, e sul modo in cui il corpo umano interagisce con l'ambiente che lo circonda. Ogni dettaglio della scena sembra suggerire un movimento, una tensione, una relazione che si estende al di là della fotografia stessa. In un'immagine, per esempio, una figura che guarda verso l'osservatore sembra sfidare l'intrusione, eppure lo sguardo è così familiare che ci invita a entrare in contatto con una parte profonda di noi stessi, una parte che potrebbe essere legata a un'esperienza personale. La figura sembra riconoscerci, e in quel riconoscimento c’è una connessione che va al di là dell’immagine statica.

C’è qualcosa di viscerale nell’opera di Essaydi, una sensazione di intimità che sfida la distanza fisica e culturale. In alcune immagini, la pelle della figura appare coperta da disegni e scritte, ma in altre, la pelle è parzialmente visibile, come se fosse una mappa di esperienze. Il contrasto tra la pelle nuda e la pelle decorata con parole e simboli racconta storie che sono universali e al contempo profondamente radicate in specifici contesti culturali. L’elemento della scrittura sulla pelle ci rimanda all'antica pratica della calligrafia, un'arte che ha sempre avuto una dimensione spirituale e religiosa nel mondo islamico, ma anche al concetto di "traccia" che ci lascia il passaggio del tempo sulla nostra carne.

Le opere di Essaydi sono anche una riflessione sul nostro rapporto con la memoria. Quando pensiamo ai ricordi, spesso immaginiamo che siano qualcosa di solido, qualcosa di cui possiamo avere piena conoscenza. Ma la realtà è che la memoria è sfuggente, può essere distorta, dimenticata, o anche completamente cancellata. In queste fotografie, la scrittura che decora i corpi non è mai fissa, ma si dissolve nel tempo. Le parole scritte non sono mai destinate a durare. Sono un’espressione di un momento, un atto di conservazione e di distruzione al tempo stesso. Eppure, anche quando svaniscono, continuano a vivere nella memoria collettiva, come tracce di un passato che non possiamo mai veramente rimuovere.

Nel contesto della cultura visiva contemporanea, l'opera di Essaydi ci offre un modo per riflettere sul nostro rapporto con la tradizione e l'identità. Le sue immagini pongono domande cruciali: fino a che punto siamo disposti a riconoscere le storie che ci vengono raccontate attraverso le immagini? In che modo le parole, i gesti, e i corpi formano il nostro senso di appartenenza? In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, queste riflessioni non sono mai state così rilevanti.

È fondamentale comprendere che l’opera di Lalla Essaydi non è solo una riflessione sulle donne, sulla cultura marocchina, o sul Medio Oriente. È una meditazione universale sulla condizione umana, sul corpo come luogo di memoria e resistenza. Ogni immagine è un invito a guardare più da vicino, a cercare oltre la superficie visibile, a interrogarsi sul significato di ciò che vediamo e su come questo si interseca con le nostre esperienze personali.