Gli amministratori di una pagina online, tra cui due adolescenti scozzesi – uno di 16 anni, l'altro di 19 – sono stati condannati a tre anni di prigione. Anche se il più giovane aveva già avuto a che fare con la giustizia per un'incidente precedente, durante il quale aveva scontato una pena in un istituto per minori, questa condanna è indubbiamente un atto che solleva interrogativi sulla giustizia. Si potrebbe addirittura parlare di una sentenza "estrema"? Quali sono le reali conseguenze della loro "temerarietà"? E come si applica il principio del danno? Il giudice Munro ha dichiarato che il post in questione costituiva "una delle violazioni più gravi della pace che abbia mai dovuto affrontare". Ma, a meno che non si sia presi da un delirio tecnicista, l'unica vera violazione sono stati i 221 click. E nessuno degli utenti che hanno cliccato il post è stato chiamato a testimoniare.

Questo caso solleva anche la questione della causalità probatoria, che, va detto, non ha nulla a che fare con la tecnologia. I disordini nelle città e nelle comunità inglesi sono stati la causa di una grande rivolta sociale, le cui motivazioni (da non confondere con l'incidente singolo che li ha scatenati) erano complesse, numerose e discusse. Come spesso accade in casi di disordini civili di vasta portata, i fattori scatenanti sono sempre sfumati. Ma la diffamazione richiede sempre che ci sia una "vittima", una parte lesa, e assumere una relazione causale tra l'atto e il danno è, evidentemente, più ragionevole.

Ma qui il problema risiede nella natura del danno. La diffamazione, in particolare, richiede una prova concreta del danno subito. Con la calunnia, per esempio, si può provare il danno economico, come quando una menzogna pubblicata causa una perdita di guadagni presenti o futuri. Altrimenti, la sensibilità delle società occidentali ai possibili danni interiori, in aumento sin dal XVIII secolo, è diventata azionabile come "dolore e sofferenza". Tali danni possono manifestarsi con sintomi esterni e verificabili, come la stanchezza cronica, disfunzioni sessuali o disturbi del sonno, ma possono anche essere solo internamente attestati, come ansia, angoscia ed inquietudine emotiva. L'umiliazione personale, o il "danno alla reputazione", è sufficiente, anche se si tratta di un concetto astratto che non ha un equivalente economico. In realtà, chi lancia bastoni e pietre, che rompono le ossa, può essere più avvantaggiato giuridicamente rispetto a chi proietta parole dannose che non lasciano segni permanenti.

La cosa significativa è che, a causa della disattenzione della legge, gran parte di questo non si applica alla rete, se non minimamente. Paradossalmente, allo stesso tempo, gli effetti supposti della rete come "agenti ipodermici" sono la causa del panico mediatico odierno, un panico alimentato dal timore che tale pericolo sia incontrollabile.

La percezione della libertà di espressione, e delle sue implicazioni legali, è quindi cambiata radicalmente con l'espansione di Internet e delle nuove tecnologie. Mentre nel passato la violazione del "diritto alla libertà" era legata a atti di violenza fisica o materiale, oggi essa può assumere forme più sfumate, che riguardano il danno psicologico o la lesione della reputazione. Questa evoluzione comporta una crescente difficoltà nel definire cosa possa essere considerato diffamazione o danno legale, specialmente nel contesto di un mondo digitale in continua evoluzione.

Nel contesto legale moderno, il "principio del danno" diventa un concetto fondamentale per orientare il diritto rispetto alle nuove forme di comunicazione. La rete, sebbene possieda capacità immense di connessione e informazione, porta con sé anche rischi significativi per la reputazione individuale e per la coesione sociale. La difficoltà maggiore risiede nel bilanciamento tra la tutela della libertà di espressione e la protezione degli individui dai danni che possono derivare dall'uso irresponsabile delle piattaforme digitali.

Dovrebbe esserci un'attenzione maggiore, da parte delle leggi, nel determinare quando una diffamazione sui social network o una pubblicazione online comporti realmente un danno, e quando invece si tratti di un abuso di libertà che minaccia il bene comune. Questo implica una riflessione su come le leggi dovrebbero adattarsi a una realtà in cui il confine tra espressione personale e danno sociale è spesso labile, e in cui le "ferite" non sono sempre visibili, ma possono avere effetti altrettanto devastanti.

Come le credenze influenzano la percezione della verità e il giornalismo: il caso della distorsione cognitiva e dei bias nei media

Le convinzioni precedenti giocano un ruolo cruciale nell'interazione dell'individuo con qualsiasi tipo di informazione, compreso il giornalismo. Un fenomeno psicologico noto come bias di conferma spiega come gli individui tendano a selezionare e interpretare le informazioni in modo tale che confermino le loro credenze preesistenti, mentre ignorano o rifiutano quelle che le contraddicono. In questo processo, ciò che è insignificante per un dubbioso può trasformarsi in una "prova" per chi è già predisposto a credere in un'idea specifica. È un errore che tutti, a un certo punto, possiamo commettere, indipendentemente dal nostro livello di educazione o esperienza. L'interpretazione delle notizie non dipende solo dalla qualità delle informazioni presentate, ma anche dal nostro stato psicologico e dalle nostre convinzioni pregresse.

Un esempio emblematico di questo fenomeno si trova nell’analisi dei teorie del complotto. Mentre i teorici della cospirazione possono sembrare un gruppo distinto dalla maggioranza della popolazione, il loro comportamento non è così diverso da quello di chiunque altro consumi notizie. La propensione a trarre conclusioni affrettate, basandosi su singoli eventi anomali, è comune a tutti. Si potrebbe pensare che il giornalismo, se adeguatamente obiettivo, possa contrastare queste distorsioni cognitive, ma la realtà è che anche i giornalisti, come ogni altro individuo, sono suscettibili di interpretare le notizie attraverso il filtro delle proprie convinzioni.

Un esperimento condotto in Germania da Cornelia Mothes ha rivelato che sia i giornalisti che i cittadini comuni tendono a considerare più "oggettive" le informazioni che confermano le loro opinioni preesistenti, anche quando queste informazioni sono presentate come "dichiarazioni di esperti" che, in realtà, sono ben bilanciate tra argomenti favorevoli e contrari. Questo fenomeno suggerisce che l'oggettività è, in larga misura, una funzione delle credenze soggettive: ciò che ci piace sentire lo consideriamo più oggettivo, e ciò che non ci piace lo vediamo come distorto o fazioso.

La questione diventa ancora più complessa quando si esamina come la percezione della "bias" nei media influisce sul dibattito pubblico e sulla formazione dell'opinione politica. Mothes ha sottolineato che la mancanza di consapevolezza da parte di giornalisti e cittadini riguardo alla necessità di confrontarsi con argomenti che sfidano le proprie convinzioni potrebbe portare a una crescente polarizzazione politica. In un ambiente mediatico dove le persone hanno la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di contenuti, il rischio è quello di finire per vivere in "camere dell'eco", dove le opinioni vengono rafforzate senza mai essere messe in discussione.

Non è necessario che i media sociali svolgano un ruolo centrale in questo fenomeno; le nostre menti sono già predisposte a rifiutare le informazioni che non si allineano con le nostre credenze. Anche senza l'aiuto degli algoritmi dei social media, è possibile rifiutare un punto di vista alternativo solo perché non lo si considera valido. Il punto critico riguarda proprio la distorsione cognitiva che porta un individuo a scartare tutto ciò che mina la sua visione del mondo.

Le opinioni di parte sono una delle manifestazioni più evidenti di questo comportamento. Sebbene il numero di persone che sostiene una determinata opinione possa sembrare determinante, ciò che conta maggiormente è il potere che le opinioni di parte hanno nel plasmare l’opinione pubblica. Quando queste opinioni si consolidano e diventano dominanti, possono influenzare profondamente le politiche pubbliche e la stessa struttura della società, spingendo sempre di più verso una frammentazione politica.

Un altro aspetto fondamentale di questa dinamica riguarda la qualità dell'informazione. In un contesto in cui molteplici fonti di notizie coesistono, la sfida sta nel discernere quelle che sono veramente imparziali da quelle che sono influenzate dal bias ideologico. Anche se ogni giornalista cercasse di essere onesto e obiettivo, rimarrebbero comunque i problemi relativi alla percezione e all'interpretazione della notizia da parte del pubblico. Il problema è dunque strutturale, radicato nella nostra psicologia.

Questo meccanismo psicologico non è nuovo. Già Bacon osservava come le idee ricevute tendano a sostenere se stesse, ignorando e disprezzando ogni prova contraria. Questo comportamento, sebbene non limitato ai teorici della cospirazione, è visibile in molti aspetti della vita quotidiana, dall’interpretazione delle notizie all’elaborazione delle nostre convinzioni politiche.

Il giornalismo è quindi chiamato a sfidare non solo la distorsione che si origina all'interno delle redazioni, ma anche quella che si forma nel pubblico. Se il giornalismo vuole mantenere la sua credibilità e utilità come fonte di informazione imparziale, deve confrontarsi con il problema dei bias cognitivi, cercando di rendere visibili e comprensibili le informazioni che potrebbero mettere in discussione le convinzioni radicate degli individui. Non si tratta solo di come le notizie sono scritte o presentate, ma di come vengono ricevute e interpretate.