Un uomo, esiliato dalla sua terra e dalle sue radici, partì alla ricerca di una nuova vita in un mondo distante. Abbandonò sua moglie, suo figlio, gli amici e tutto ciò che aveva conosciuto, per ricominciare in un angolo remoto del mondo. Nonostante le sue intenzioni di rinnovamento, la sua storia si concluse tragicamente. La sua vista, a poco a poco, si offuscò, e la sua salute declinò inesorabilmente. Morì in un miniera, consumato dal dolore e dalla fatica, ma la sua storia divenne leggenda, e la sua tragica fine non fu dimenticata.

Il racconto che egli aveva lasciato dietro di sé parlava di una valle nascosta, dove la bellezza naturale aveva un potere quasi magico. Lì, il cuore dell'uomo poteva trovare tutto ciò che desiderava: acqua dolce, pascoli rigogliosi, un clima mite, terre ricche e fertile, e frutti prelibati che cresceva tra i cespugli selvatici. La valle era protetta da imponenti scogliere di roccia verde-azzurra, coronate da ghiacciai che impedivano alle acque gelate di scorrere verso il cuore della valle. Lì, la pioggia e la neve erano sconosciute, e le acque che scaturivano dalle sorgenti alimentavano i pascoli, rendendo la vita prospera per chi abitava quella terra.

Ma, nonostante l'idilliaca bellezza e la ricchezza del paesaggio, la valle non era priva di una maledizione. Un'insolita malattia, che portava alla cecità, aveva colpito tutti i bambini nati lì, e non solo loro, ma anche alcuni adulti. In un'epoca in cui la scienza era ancora lontana dalla comprensione di infezioni e malattie, si pensava che tale sofferenza fosse una punizione per un peccato collettivo. La mancanza di un luogo sacro, di una chiesa o di un altare per venerare la divinità, veniva vista come la causa di questa disgrazia. Così, l'uomo che aveva lasciato la valle per cercare una cura, portava con sé una barra di argento, simbolo della sua speranza di ottenere aiuto celeste.

La sua storia di disperazione e ricerca non fu mai conclusa. Dopo il suo ritorno, il dramma della sua vita si consumò in una morte prematura, ma la leggenda della valle cieca continuò a vivere. La comunità che aveva trovato rifugio in quel luogo remoto era ormai composta interamente da persone che, pur vedendo poco o nulla, erano forti e adattabili. Man mano che il tempo passava, i discendenti dei primi abitanti della valle imparavano a convivere con la cecità. La loro capacità di orientarsi nel territorio, di gestire il fuoco e di vivere in un ambiente così isolato, diventava sempre più raffinata.

Le generazioni si susseguivano, e la memoria del mondo esterno sbiadiva sempre di più. La conoscenza della loro terra e dei suoi segreti era ormai leggendaria, ma l'arte di vivere senza la vista, che un tempo avrebbe potuto sembrare un peso, era diventata una virtù. La saggezza veniva tramandata oralmente, e ogni nuova generazione si adattava alla sua condizione, sviluppando soluzioni ingegnose per le difficoltà quotidiane. Non c’erano più arnesi per leggere o scrivere, ma la loro capacità di comprendere il mondo attraverso il tatto e l'ascolto li rendeva eccezionali in molti aspetti della vita.

Il mito della valle cieca si radicò nella cultura della zona, trasformandosi in un simbolo di resistenza e adattabilità. La leggenda raccontava di una comunità che, nonostante l’isolamento e le difficoltà, era riuscita a costruire una vita prospera, dove l'assenza di vista non significava incapacità, ma una nuova modalità di comprensione del mondo. La storia si intrecciò con quella di un giovane uomo, un montanaro che, proveniente da un altro mondo, sarebbe entrato in contatto con questa comunità. La sua storia avrebbe cambiato il destino di tutti, ma solo in modi che sarebbe stato difficile comprendere in anticipo.

Oltre a conoscere la bellezza di questa valle e le sfide che i suoi abitanti affrontavano, è fondamentale riflettere su come le disabilità, fisiche e mentali, possano influenzare una cultura. In questo caso, la cecità, sebbene inizialmente vista come una maledizione, si trasformò in una nuova forma di saggezza e competenza. La comunità, che avrebbe potuto perdersi nell’isolamento e nel dolore, si rivelò capace di superare le sue difficoltà, sviluppando un modo unico di vedere il mondo, un "vedere" che non dipendeva dalla vista, ma dalla percezione del cuore e della mente.

Inoltre, è importante notare come la percezione che gli altri hanno di una comunità, o di una persona, possa essere completamente diversa dalla realtà. La comunità della valle, pur privata della vista, possedeva una forza e una coesione che non dipendevano dalla visibilità fisica, ma dalla solidarietà e dall'ingegno collettivo. Questo ci invita a ripensare le nostre idee su ciò che significa essere “completi” o “abili”, aprendo la mente a nuove forme di comprensione e interazione con il mondo.

La nave del futuro: un viaggio attraverso l'ignoto e l'infinito

Questa nave del futuro, come se il dito di Dio avesse inciso le sue linee nel suo cervello, era qualcosa di profondamente familiare per Abel Keeling. Conosceva ogni sua parte come chi sta per entrare nella tomba sa le cose in modo miracoloso, completamente, accettando le impossibilità della vita con un semplice “Certo.” Dal soffio ardente delle sue otto caldaie, fino all'ultimo goccio dai suoi lubrificatori, dal suo letto di macchine fino alla culatta dei suoi cannoni, lui la conosceva. Leggeva i suoi indicatori, tastava i suoi cuscinetti, dava le distanze dai suoi strumenti di puntamento e viveva la vita che viveva chi ne era al comando. Non avrebbe dimenticato il giorno dopo, come aveva dimenticato così tanti altri giorni, perché finalmente aveva visto l'acqua ai suoi piedi, sapendo che non ci sarebbe stato un altro giorno per lui in questo mondo.

E anche in quel momento, con solo qualche granello di sabbia che restava nella sua clessidra, indomito, insaziabile, sognando sogno dopo sogno, non poteva morire senza conoscere di più. Aveva due domande da fare e una domanda principale, per cui il tormento della risposta gli faceva battere il cuore. Ma il tempo stava per scadere. La sua voce, improvvisamente, risuonò acuta e decisa: “Ehi, là! Questa nave antica, la Mary of the Tower, non può navigare a trenta e un quarto di nodo, ma può comunque solcare le acque. Cosa fa la tua nave? Può librarsi sopra di esse, come gli uccelli del cielo?”

“La tua nave è un aeroplano!” rispose qualcuno, e Abel Keeling rise, con un’espressione di trionfo.

Non c'era bisogno di altre parole. La sua nave era qualcosa che non poteva essere contenuto da nulla che fosse già conosciuto. La nave di Abel non si limitava a galleggiare sulle acque. Era un sogno, una visione di ciò che l'uomo avrebbe potuto essere capace di costruire, trascendendo ogni limite. La sua domanda principale, che non riusciva a fare per il terrore della risposta, era rivolta a qualcosa di più grande, a un ordine superiore, che non si trovava semplicemente nel suo corpo di uomo o in un destino umano. Lui cercava un legame con un qualcosa che oltrepassasse la materialità della sua esistenza, una connessione che solo il suo spirito, e non la sua carne, poteva comprendere. Quando la nave cominciò a sprofondare, la sua domanda rimase sospesa, come se non fosse mai stata formulata.

Il concetto di mondi alternativi, come quello che ci viene spesso presentato dalla fantascienza, non è altro che un tentativo di abbracciare l'infinito, di sfidare il nostro orizzonte conoscitivo e di esplorare ciò che è oltre. La fantasia che ci permetta di viaggiare da un mondo all'altro, attraversando universi paralleli che sembrano simili al nostro ma completamente differenti, è affascinante e inquietante. Ogni mondo, in una sorta di eterno ritorno, ci costringe a chiederci se c'è davvero un percorso che valga la pena seguire o se ogni strada è destinata a non portarci da nessuna parte. Ma la risposta risiede nel cuore di quella strada, che determina se il viaggio sarà gioioso o maledetto.

Immagina un'altra città, un altro luogo dove la familiarità ti sembra strana, ma non sei mai stato in un posto del genere. Le automobili sembrano familiari, ma sono mezzo-bisonti, veicoli dalla forma bassa e snodabile con due ruote anteriori, senza capote, ma con un fascino peculiare. Il design è assurdo eppure affascinante. E le notizie sui giornali: le stesse scritte, le stesse immagini, ma i nomi sono cambiati. Un uomo che potrebbe sembrare un eroe della nostra storia ora è il presidente di un altro mondo. Il linguaggio si è modificato, il senso di familiarità è disturbante e ogni passo che fai sembra condurti più lontano da casa.

In questo universo alternativo, non c'è nulla di completamente uguale al nostro, ma tutto è frammisto con la stessa sfumatura di ciò che già conosciamo. Una moneta che è tanto metallica quanto gommoso, una lingua che ti è quasi familiare ma che non capisci del tutto. Ogni cosa è il riflesso di un'altra, distorta ma sempre vicina.

Il lettore, affrontando questi mondi di pura speculazione e differenze sottili, è portato a riflettere sul concetto di identità e di continuità. Se esistono infinite versioni del nostro mondo, come possiamo definire ciò che è veramente nostro? La bellezza di un mondo alternativo non sta nel vedere semplicemente l'estraneo, ma nell'imparare a conoscere l'estraneo che è in noi stessi. Le verità universali sono rare, ma forse la più grande verità che possiamo scoprire è che non siamo mai veramente lontani da casa, anche quando sembriamo viaggiare nell’infinito.

"Come affrontare un mondo dove la vista non esiste?"

Nunez, arrivato in un villaggio isolato tra valli ghiacciate e montagne maestose, si ritrovò in un mondo dove la vista, uno dei sensi fondamentali dell'uomo, non esisteva. Il paesaggio che lo circondava, con i suoi splendidi ghiacciai e la luce del tramonto che illuminava la neve, lo colpiva profondamente. Ogni angolo di quella valle, pur privo della visione di ciò che lo circondava, era per Nunez una rivelazione estetica. Si sentiva in dovere di condividere con gli abitanti di quel villaggio una verità fondamentale: la vista. Ma in questo mondo, le cose non erano semplici.

Gli abitanti del paese, ciechi dalla nascita, non avevano alcuna nozione di ciò che fosse la vista. Il loro mondo era costruito su altri sensi: l'udito, l'olfatto e la sensibilità tattile. In questo contesto, Nunez cercò prima di tutto di spiegare loro la bellezza che poteva essere percepita attraverso gli occhi, ma la sua esperienza venne accolta con incredulità, se non addirittura con disprezzo. Per lui, la visione rappresentava un dono divino, un mezzo per esplorare il mondo in tutte le sue sfumature. Per gli abitanti del villaggio, tuttavia, la visione era un concetto incomprensibile, una fantasia che non poteva essere provata dai loro sensi.

Le loro vite, pur essendo condotte in un'oscurità totale, erano piene di una sorprendente armonia. Lavoravano con grande precisione e sicurezza, guidati dal suono, dal tatto e dall'olfatto. Ogni sentiero era perfettamente conosciuto, ogni gesto era misurato. La loro capacità di percepire il mondo era al di fuori della comprensione di Nunez, che credeva fermamente che la vista fosse essenziale per la comprensione del mondo. Ma per loro, il mondo era fatto di altro: il suono dei passi di qualcuno, il respiro di un animale, il fruscio del vento tra le rocce.

Nonostante ciò, Nunez non si diede per vinto. Tentò più volte di spiegare loro la bellezza di ciò che vedeva: le montagne, il cielo, il tramonto. Ma i ciechi rispondevano sempre con una risata di incredulità. "Non c’è nulla da vedere," dicevano, "quello che descrivi non esiste." In effetti, la loro realtà era completamente differente. Le montagne che per Nunez erano così evidenti, per loro non erano altro che rocce lontane, con il cielo che era percepito come una sorta di soffitto immobile, una cupola che racchiudeva il loro mondo.

Quando Nunez cercò di raccontare loro delle cose che si potevano "vedere" grazie agli occhi, come il movimento delle persone, la loro risposta fu ancor più distante dalla sua concezione. Non c'era nulla da vedere. Solo ciò che poteva essere percepito dai sensi che loro conoscevano era reale. Eppure, Nunez tentò ancora, cercando di insegnare loro i "benefici" della vista. Quando, per esempio, descrisse l’arrivo di una persona a distanza, il gruppo lo derise, mostrando quanto la sua percezione del mondo fosse lontana dalla loro. Per loro, non esisteva bisogno di occhi per sapere chi si trovava nelle vicinanze; l'udito e l'olfatto bastavano.

La tensione salì quando Nunez decise di passare all'azione, credendo che solo attraverso un atto di forza avrebbe potuto dimostrare la superiorità del suo dono. Ma si accorse ben presto che non era facile colpire degli esseri umani che avevano una realtà completamente diversa dalla sua. Il tentativo di aggredirli con una zappa si trasformò in un momento di riflessione. Nunez si trovò di fronte a un paradosso: come puoi combattere con qualcuno che non condivide la tua stessa percezione della realtà?

Non solo la lotta fisica divenne difficile, ma anche la lotta mentale si rivelò ardua. Le percezioni di Nunez erano legate alla visione, mentre quelle dei ciechi erano legate ad altri sensi. La sua stessa lotta, così come la sua stessa esistenza in quel mondo, divenne difficile da comprendere. Ogni suo tentativo di farsi capire appariva ai suoi occhi sempre più vano, come se stesse cercando di spiegare il colore a chi non aveva mai visto. La sua solitudine divenne così profonda che persino il concetto stesso di "guerriero" sembrava svanire nel momento in cui si trovò di fronte a una popolazione che non aveva mai conosciuto la violenza nel suo senso più tradizionale.

Quello che Nunez non riusciva a comprendere, e ciò che divenne chiaro nel corso del tempo, era che in un mondo dove la vista non esisteva, non c’era nemmeno un’idea di superiorità, perché non esisteva il bisogno di "vedere" per capire o vivere. La domanda fondamentale che Nunez non riuscì mai a porsi era: come può un uomo che ha la capacità di vedere percepire il mondo senza di essa? La risposta, per quanto dolorosa fosse, era che la visione non è l’unico modo per conoscere il mondo. Le altre capacità sensoriali, anche se in qualche modo limitate rispetto alla vista, possono formare una realtà altrettanto complessa e valida, che non ha bisogno di approvare l'esistenza di un altro mondo, ma solo di un altro modo di viverlo.

Come il terzo livello di Grand Central può essere un rifugio nel passato

C'è qualcosa di strano e affascinante nell'idea che le porte del tempo possano aprirsi in luoghi che consideriamo familiari, come una stazione ferroviaria. Mi trovavo a camminare lungo un corridoio, in una parte di Grand Central che non avevo mai visto prima, una via di fuga che non avevo mai immaginato. Non ho mai raccontato al mio psichiatra di quel pensiero che mi attraversò la mente, forse perché sembrava assurdo, ma la verità è che mi sentivo come se stessi intraprendendo una strada che mi avrebbe condotto fuori dal presente.

Il corridoio, che si curvava a sinistra e scendeva in pendenza, sembrava errato, ma qualcosa dentro di me mi spingeva a proseguire. Il silenzio era profondo, interrotto solo dal suono dei miei passi solitari. Poi, all'improvviso, un rumore cavernoso, una sorta di ruggito che proveniva da uno spazio aperto, accompagnato dal brusio di voci. La curva si faceva più stretta e scendevo qualche gradino fino a trovarmi al terzo livello di Grand Central. Non sapevo cosa stesse succedendo: ero di nuovo alla stazione, ma non sembrava quella che conoscevo.

Il luogo era più piccolo, i finestrini delle biglietterie erano meno numerosi, e l'informazione centrale sembrava antica, fatta di legno. L'atmosfera era scura, la luce tremolante, e quando guardai il banco dei biglietti, notai un uomo vestito in modo strano, con un copricapo verde e protezioni nere sulle braccia. Un uomo con una folta barba e un cappello sporco stava guardando il suo orologio d'oro. La scena sembrava estranea al mio tempo, e quando mi resi conto che mi trovavo in un altro periodo storico, tutto divenne chiaro. Era il 1894.

Mi avvicinai a un venditore di giornali e notai che il giornale che teneva in mano era The World, una testata che non veniva pubblicata da decenni. La data sulla prima pagina indicava chiaramente il 11 giugno 1894. Era impossibile negarlo. Mi trovavo nel passato. Il terzo livello non era solo un piano sotterraneo, ma un passaggio tra i tempi. Con una certa frenesia, mi avvicinai alla biglietteria per comprare un biglietto per Galesburg, una cittadina che conoscevo bene e dove avrei voluto tornare. Un sogno che non avevo mai davvero dimenticato.

Il bigliettaio guardò con curiosità il mio denaro, ma appena lo esaminò, divenne sospettoso. La valuta che avevo con me era ormai obsoleta, una moneta che non esisteva più. Mi allontanai velocemente, consapevole che in quel mondo strano e lontano non c'era posto per me.

Il giorno successivo, comprati dei soldi in vecchio stile, e nonostante l'ulteriore preoccupazione del mio amico psichiatra, continuai a cercare il passaggio verso quel mondo dimenticato. Nonostante i miei sforzi, però, non sono mai riuscito a ritrovare quel corridoio.

Poi, una sorpresa. Durante una ricerca tra la mia collezione di francobolli, trovai una busta mai aperta, inviata a mio nonno nel luglio del 1894. La lettera, datata 18 luglio 1894, era firmata da Sam, un amico che avevo conosciuto proprio grazie alla sua professione di psichiatra. Nella missiva, Sam scriveva di aver trovato il terzo livello e di essersi trasferito nel 1894, a Galesburg. Mi invitava a trovarlo, a cercare di nuovo la via per quel mondo del passato. La sua lettera non lasciava dubbi: Sam, il mio psichiatra, era ora una persona di quell'epoca. Con lui, il passato era diventato presente.

L'esperienza mi ha fatto riflettere su quanto sia fragile la nostra percezione del tempo. Forse quello che vediamo come il nostro "presente" è solo una delle infinite realtà che potrebbero esistere. Il terzo livello non è solo un passaggio fisico; è anche simbolico. Rappresenta il desiderio di fuggire, di rifugiarsi in un'epoca che sembra più semplice, più serena, ma anche di confrontarsi con le realtà della nostra esistenza. Nel caso di Sam, la scelta di vivere nel passato rappresenta un desiderio di evasione che, forse, non può essere mai realmente soddisfatto.

Quando ci guardiamo intorno, spesso ci sfugge l'idea che possiamo trovarci a vivere, anche per un solo istante, in un'altra epoca, in un altro mondo. Il terzo livello non è un semplice luogo, ma un concetto che possiamo esplorare solo quando smettiamo di considerare il tempo come un flusso lineare. È un rifugio per chi è stanco del presente, ma anche un monito: ciò che sembra un rifugio potrebbe rivelarsi una prigione.