Il ferromagnetismo si manifesta grazie all’allineamento parallelo degli spin di elettroni spaiati in un solido, con un’intensità che dipende dalla densità di stati elettronici vicino al livello di Fermi. Nei metalli di transizione della prima serie, come ferro, cobalto e nichel, gli orbitali 3d, relativamente meno diffusi rispetto ai 4d e 5d delle serie successive, producono bande energetiche più strette con alta densità di stati vicino al livello di Fermi, condizione necessaria per il ferromagnetismo. Nei metalli della seconda e terza serie di transizione, la maggiore diffusività degli orbitali 4d e 5d determina bande più larghe e quindi un’efficace diminuzione della densità di stati, vanificando la formazione di un ordine ferromagnetico stabile.
L’elettrone 3d è quindi fondamentale per il comportamento magnetico dei metalli di transizione, con la massima densità di stati proprio nella parte centrale della serie, mentre agli estremi, come nel titanio o nel rame, la banda 3d si trova troppo lontana dal livello di Fermi o è completamente occupata, comportando uno stato non ferromagnetico. La ridotta mobilità degli elettroni 3d, dovuta all’elevata densità di stati, determina anche una minore conducibilità elettrica rispetto ai metalli semplici come il rame, in cui gli elettroni di conduzione sono negli orbitali più diffusi 4s/4p.
Per applicazioni tecnologiche sono spesso preferite leghe ferromagnetiche piuttosto che i metalli puri. Particolarmente significative sono le leghe di ferro, cobalto e nichel con elementi delle terre rare, come SmCo5 e Nd2Fe14B, che danno origine ai magneti permanenti più potenti. Qui il contributo magnetico degli elettroni f degli elementi lanthanidi è cruciale: pur essendo in gran parte localizzati a causa della scarsa sovrapposizione orbitale, questi elettroni si allineano attraverso l’interazione con gli elettroni d del metallo di transizione. Questa interazione di scambio tra elettroni d del metallo e elettroni f locali permette un allineamento cooperativo che porta a valori di magnetizzazione molto elevati, superando quelli teorici dei soli metalli di transizione. Anche leghe con elementi non magnetici, come manganese, possono diventare ferromagnetiche se l’interazione tra orbitali d è modificata, ad esempio tramite variazioni nelle distanze interatomiche.
L’allineamento globale degli spin elettronici in un solido non è però una questione semplice: benché all’interno di singoli volumi di cristallo, detti domini, gli spin siano allineati parallelamente, la disposizione complessiva di tali domini può essere casuale. Questo spiega perché un campione di ferro, pur contenendo milioni di elettroni allineati localmente, non appare magnetizzato senza l’applicazione di un campo esterno. La formazione di domini è il risultato della competizione tra forze di scambio a corto raggio, che favoriscono l’allineamento parallelo, e interazioni dipolari magnetiche a lungo raggio, che tendono a disallineare i domini adiacenti. Con l’aumentare delle dimensioni di un dominio, le forze dipolari diventano preponderanti, causando la formazione di domini con spin antiparalleli vicini.
Quando si applica un campo magnetico esterno, i domini tendono a riallinearsi con il campo mediante due meccanismi principali: la crescita di domini favorevoli a spese di quelli contrari, che comporta uno spostamento graduale della parete di separazione tra domini (parete di dominio), e la rotazione simultanea degli spin in interi domini in campi magnetici sufficientemente forti. La presenza di impurità o difetti può ostacolare la crescita dei domini, richiedendo un campo magnetico più intenso per superare le barriere energetiche, e causando un effetto di isteresi che permette alla magnetizzazione di persistere anche dopo la rimozione del campo.
L’analisi delle curve di isteresi, che rappresentano la densità del flusso magnetico in funzione del campo applicato, permette di caratterizzare la risposta magnetica di un materiale e di valutarne l’idoneità per varie applicazioni. Fattori chiave includono non solo il valore massimo di magnetizzazione, legato al numero di elettroni spaiati, ma anche la facilità con cui il materiale può essere magnetizzato e smagnetizzato, strettamente connessa alla struttura cristallina e alla presenza di impurità.
È essenziale comprendere che la magnetizzazione osservabile in un materiale ferromagnetico è il risultato di un delicato equilibrio tra interazioni elettroniche locali e fenomeni a scala macroscopica, che definiscono la formazione e l’evoluzione dei domini magnetici. L’efficienza e le caratteristiche dei materiali ferromagnetici possono quindi essere modulate non solo dalla composizione chimica, ma anche dalla microstruttura e dalla gestione delle impurità, elementi fondamentali nel design di materiali magnetici avanzati.
Come vengono utilizzate le nanostrutture nella medicina e quali sono le implicazioni per la salute?
Le nanostrutture, con dimensioni comprese tra i 0.2 e i 100 nm, sono oggetto di crescente interesse nelle applicazioni biomediche grazie alle loro proprietà uniche rispetto ai materiali in forma macroscopica. Tali proprietà derivano principalmente dalla loro elevata superficie specifica e dalla capacità di interagire in modi inusuali con le molecole biologiche. La loro applicazione in campo medico si estende dalla diagnostica alla terapia, dalla bioingegneria ai trattamenti farmacologici mirati, rivelandosi particolarmente promettente in numerosi ambiti della salute.
Uno degli impieghi più noti delle nanoparticelle riguarda il rilevamento di biomarcatori per malattie cardiovascolari, come nel caso delle nanoparticelle d’oro, che vengono utilizzate anche in kit di gravidanza domestici. Le nanoparticelle d'argento, conosciute per le loro potenti proprietà antibatteriche, sono ampiamente impiegate per impregnarvi bende, calze, deodoranti e altri prodotti igienici. Tali nanoparticelle agiscono uccidendo i batteri responsabili degli odori sgradevoli e contribuendo a prevenire infezioni cutanee. Altri materiali, come l'ossido di zirconio (ZrO2), trovano impiego nelle otturazioni dentali, dove la loro trasparenza ai raggi visibili e la loro opacità ai raggi X sono caratteristiche fondamentali per migliorare le proprietà estetiche e funzionali del trattamento.
Le particelle di ossido di ferro superparamagnetico vengono utilizzate per migliorare la qualità delle immagini nella risonanza magnetica (RM), agendo come agenti di contrasto. Le cosiddette "quantum dots" (punti quantistici) sono un’altra classe di nanostrutture che trovano applicazione nella diagnostica, grazie alle loro proprietà luminescenti. Questi piccoli cristalli fluorescenti possono emettere luce a una lunghezza d'onda specifica quando eccitati, rendendoli utili come sonde fluorescenti nei sistemi biologici. I loro vantaggi risiedono nella stabilità, nell’emissione di una luce molto intensa e nella possibilità di essere utilizzati in combinazione con diversi colori, per monitorare simultaneamente differenti processi biologici.
Un’altra area promettente riguarda le nanoparticelle magnetiche di ossido di ferro, che, opportunamente funzionalizzate con anticorpi, potrebbero essere iniettate nel flusso sanguigno per localizzare marker di malattie o infezioni, come i siti cancerosi, e successivamente essere rilevate tramite RM. Se una molecola farmacologica viene ancorata alla superficie di una nanoparticella magnetica, un campo magnetico esterno potrebbe essere utilizzato per indirizzare il farmaco in modo preciso verso il sito di infezione, ottimizzando l’efficacia terapeutica e riducendo gli effetti collaterali.
Oltre alle nanoparticelle inorganiche, anche le nanoparticelle organiche stanno trovando spazio nelle applicazioni mediche, come nel caso dei vaccini m-RNA per il COVID-19, che vengono somministrati tramite nanoparticelle lipidiche. Queste particelle, sebbene non siano metalliche, possiedono proprietà simili nel contesto della somministrazione e del rilascio di farmaci o agenti terapeutici.
Tuttavia, nonostante le numerose applicazioni promettenti, l’uso delle nanostrutture comporta anche una serie di preoccupazioni legate alla sicurezza. Data la loro dimensione estremamente ridotta, le nanoparticelle sono in grado di penetrare facilmente nei tessuti biologici, attraversando barriere fisiologiche come la barriera ematoencefalica. Questo può essere un vantaggio nei trattamenti per patologie cerebrali, ma solleva anche preoccupazioni circa potenziali effetti avversi a lungo termine. Le nanoparticelle di dimensioni inferiori a 2500 nm, ad esempio, sono in grado di raggiungere i polmoni e gli alveoli, dove potrebbero risultare dannose se inalate. Studi sulla sicurezza suggeriscono che, mentre i materiali solubili possono avere una tossicità simile a quella delle particelle di dimensioni maggiori, le nanoparticelle non solubili possono accumularsi nei tessuti e causare danni.
Inoltre, la sicurezza delle nanoparticelle utilizzate nei prodotti cosmetici o nei filtri solari è un tema di continuo dibattito. Alcune ricerche indicano che le nanoparticelle di ossido di zinco e biossido di titanio presenti in alcune creme solari penetrano la pelle in misura molto limitata, mentre altre, come quelle contenenti carbonio, possono essere inalate e raggiungere i polmoni con il rischio di causare effetti tossici, soprattutto se disperse nell’aria a causa di emissioni da combustibili fossili.
L'approccio verso la sicurezza delle nanostrutture dovrebbe quindi considerare non solo la loro tossicità intrinseca ma anche le modalità di esposizione, il comportamento a lungo termine nel corpo e l’interazione con i sistemi biologici. Le regolamentazioni per la salute e la sicurezza dei consumatori devono evolversi per tenere conto delle nuove scoperte in materia di nanoscienza e tecnologia.
Le nanostrutture rappresentano una frontiera avanzata nelle scienze della salute, con applicazioni che spaziano dalla diagnostica alla terapia, dalla chirurgia alla prevenzione. La ricerca continua a sviluppare nuove soluzioni basate sulla manipolazione di materiali a scala nanometrica, ma la sicurezza e gli effetti a lungo termine delle nanoparticelle devono essere attentamente monitorati per garantirne l’uso sicuro.
Come si determina la dimensione dei cristalliti: Diffrazione a polvere, Equazione di Scherrer e Metodo Rietveld
La diffrazione dei raggi X è una tecnica fondamentale per lo studio delle strutture cristalline. Essa consente di ottenere informazioni essenziali sulla dimensione e sull'orientamento dei cristalli presenti in un campione. Tuttavia, la diffrazione non è priva di complicazioni: la larghezza dei picchi osservati può essere influenzata da diversi fattori, tra cui la dimensione dei cristalliti, gli effetti strumentali, lo stress e la deformazione nel campione. Sebbene la relazione tra la larghezza dei picchi e la dimensione dei cristalliti sia una delle più utili per i chimici dei materiali, è importante comprendere come calcolare la dimensione dei cristalliti con l'ausilio dell'Equazione di Scherrer.
L'Equazione di Scherrer consente di stimare la dimensione dei cristalliti sulla base della larghezza dei picchi diffratti. La formula è espressa come segue:
Dove:
-
è la dimensione del cristallito,
-
è la lunghezza d'onda della radiazione,
-
è la larghezza del picco a metà altezza (FWHM),
-
è l'angolo di diffrazione.
È importante notare che la larghezza dei picchi non è determinata esclusivamente dalla dimensione dei cristalliti. Gli strumenti di diffrazione, così come gli effetti legati allo stress e alla deformazione nel campione, possono ampliare i picchi, creando incertezze nelle misurazioni. In pratica, la larghezza dei picchi derivante dall'effetto strumentale è talvolta trascurabile, ma può essere corretta se necessario.
Un altro aspetto fondamentale nell'analisi strutturale è il metodo di Rietveld, che ha rivoluzionato l'analisi dei dati da diffrazione a polvere. Prima dell'introduzione di questo metodo negli anni '60, la determinazione delle strutture era limitata ai dati provenienti da esperimenti di diffrazione su singoli cristalli. L'analisi a polvere, al contrario, presentava difficoltà dovute alla sovrapposizione dei picchi e agli effetti di allargamento causati dall'uso di strumenti non perfetti. Con l'introduzione del metodo di Rietveld, divenne possibile determinare la struttura di materiali a polvere, anche in presenza di sovrapposizioni e distorsioni strumentali.
Il metodo di Rietveld si basa su un modello strutturale iniziale, che viene poi confrontato con i dati sperimentali ottenuti dalla diffrazione. Questo modello viene affinato attraverso un processo di minimizzazione degli scarti tra i dati osservati e quelli calcolati, permettendo di ottenere una soluzione strutturale più precisa. È importante che, durante il processo di affinamento, i parametri del modello siano sempre verificati, per evitare errori che possano derivare da un "minimo falso", cioè da una soluzione che sembra ottimale ma che non corrisponde alla realtà chimica del campione.
Nel caso in cui non sia disponibile un modello iniziale per il campione in esame, si ricorre alle tecniche di soluzione strutturale, che in passato erano riservate solo ai cristalli singoli. Tuttavia, grazie ai progressi nelle tecniche di diffrazione a polvere, oggi è possibile ottenere soluzioni strutturali anche in assenza di un cristallo singolo. La diffrazione a cristallo singolo offre il vantaggio di evitare la sovrapposizione dei picchi e di ottenere dati con una precisione maggiore. Tuttavia, questa tecnica richiede cristalli di dimensioni appropriate e privi di difetti, poiché ogni cristallo deve diffondere la radiazione in modo uniforme per produrre un pattern di diffrazione chiaro.
La raccolta dei dati da cristalli singoli avviene utilizzando diffractometri a quattro circolari, dotati di contatori a scintillazione o, più recentemente, dispositivi CCD (Charge-Coupled Device), che consentono di raccogliere dati su un'area più ampia in tempi molto più brevi rispetto ai tradizionali dispositivi fotografici. L'uso di azoto liquido per raffreddare il campione aiuta a ridurre il movimento termico degli atomi, migliorando la qualità dei dati raccolti.
Nel contesto delle strutture cristalline, è essenziale comprendere che ogni metodo di analisi ha le sue limitazioni e che l'accuratezza dei risultati dipende fortemente dalla qualità dei dati iniziali e dalle condizioni sperimentali. La precisione nella determinazione delle dimensioni dei cristalliti e nell'affinamento delle strutture richiede una comprensione approfondita dei principi fisici sottostanti e una cura costante nell'interpretazione dei risultati. La qualità dei modelli strutturali dipende anche dal rigore con cui vengono selezionati i parametri di raffinamento e dalla consapevolezza che un modello chimicamente irrealistico può portare a conclusioni errate.
Come si rappresenta l’ordine magnetico e l’analisi della funzione di distribuzione di coppia nei materiali
Per descrivere l’ordine magnetico nei materiali è necessario introdurre un’operazione di simmetria supplementare rispetto a quelle spaziali tradizionali: l’operatore di inversione (R), che inverte la direzione del momento magnetico. Questa operazione, combinata con le simmetrie del gruppo spaziale, porta alla definizione di 36 tipi di reticoli di Bravais magnetici e a un totale di 1651 gruppi spaziali magnetici. La complessità nel determinare le strutture magnetiche deriva anche dalla possibilità che l’ordine magnetico sia incommensurabile con la cella cristallografica sottostante, cioè che non esista una relazione di tipo intero fra le due. Un esempio emblematico è il cromo, il cui reticolo è cubico centrato nel corpo (bcc), ma al di sotto di 313 K mostra, mediante diffrazione neutronica, un ordine sinusoidale dei momenti magnetici che si ripete su una distanza di 26 celle unitarie.
L’analisi convenzionale dei dati di diffrazione si basa sull’osservazione di picchi di Bragg ben definiti, tipici di materiali con ordine a lungo raggio e strutture cristalline altamente riproducibili. Tuttavia, molte sostanze solide non possiedono un ordine a lungo raggio perfetto o mostrano cristallinità ridotta, con dimensioni di cristalliti nanometriche e una certa quantità di disordine locale. Laddove difetti e drogaggi influenzano significativamente le proprietà elettriche e magnetiche, l’analisi dell’ordine a breve raggio diventa fondamentale per comprendere e progettare nuovi materiali.
Il modello classico di Rietveld tende a ignorare lo scattering diffuso, spesso considerato come semplice rumore di fondo, ma questo contiene preziose informazioni sulla struttura locale. L’analisi della funzione di distribuzione di coppia (PDF), nota anche come scattering totale, utilizza sia i picchi di Bragg che lo scattering diffuso per ricavare la funzione G(r), che esprime la probabilità di trovare un atomo vicino ad un altro a distanza r. Nei materiali altamente cristallini questa funzione presenta picchi netti che si estendono a grandi valori di r, riflettendo l’ordine a lungo raggio, come nel diamante cristallino. Al contrario, materiali amorfi o disordinati mostrano picchi solo a basse distanze, decrescendo rapidamente con l’aumentare di r, come nel carbonio vetroso.
La teoria della PDF risale agli anni ’30, ma è stata applicata estensivamente solo dagli anni ’90 grazie all’avanzamento delle capacità computazionali e alla disponibilità di sorgenti di radiazione ad alta energia, come i sincrotroni. Oggi questa tecnica è sempre più diffusa e supportata da software automatizzati e strumentazione dedicata, che permettono di ottenere informazioni sulla struttura locale anche in materiali complessi e nanostrutturati.
In termini semplici, la PDF può essere vista come un istogramma delle distanze interatomiche all’interno di un materiale. L’altezza dei picchi riflette la frequenza delle interazioni tra coppie di atomi specifiche, opportunamente corrette per il potere di scattering degli elementi coinvolti. Questo consente sia un’analisi qualitativa immediata delle distanze interatomiche, sia un’analisi quantitativa più sofisticata, simile ai raffinamenti di Rietveld, con la determinazione di numeri di coordinazione e dimensioni di cristalliti.
Dal punto di vista matematico, si parte dalla funzione di scattering totale S(Q), ricavata dalla misura dell’intensità diffratta in funzione dello spazio reciproco Q, corretta per varie componenti di scattering non desiderato. Da S(Q) si ottiene la funzione ridotta F(Q), enfatizzando i dati a Q elevati, e applicando una trasformata di Fourier si giunge alla funzione di distribuzione di coppia ridotta G(r), che fornisce informazioni reali sulle distanze atomiche. Poiché non è possibile misurare su tutto l’intervallo Q da zero a infinito, si lavora su un intervallo finito, il che comporta alcune limitazioni pratiche che devono essere considerate nella valutazione dei dati.
Oltre a fornire dettagli sulle posizioni atomiche a breve raggio, l’analisi PDF è cruciale per distinguere l’ordine locale che non si riflette necessariamente nella struttura media cristallina, rivelando così difetti, distorsioni o modelli di doping essenziali per la comprensione delle proprietà funzionali dei materiali. L’integrazione di questa tecnica con altre analisi strutturali rappresenta un passaggio indispensabile verso la progettazione mirata di materiali avanzati.
È importante comprendere che la funzione di distribuzione di coppia rappresenta un ponte tra lo spazio reciproco, dove si misura la diffrazione, e lo spazio reale, dove si studiano le posizioni atomiche. La possibilità di separare contributi parziali di coppie atomiche distinte, pur complessa, permette di decifrare la struttura atomica anche in materiali amorfi, nanostrutturati o con difetti, aprendo una finestra su fenomeni che la diffrazione classica non può rivelare.

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