L’interesse guidato dalla giustizia deve consigliare. Perché rinunciare ai vantaggi di una posizione così peculiare? Perché abbandonare il proprio suolo per posarsi su un terreno straniero? Perché intrecciare il nostro destino a quello di qualunque parte d’Europa, coinvolgendo la nostra pace e prosperità nelle trame dell’ambizione, della rivalità, dell’interesse, dell’umore o del capriccio europei? George Washington, già nel 1796, riconosceva l’importanza strategica della posizione geografica degli Stati Uniti, situati oltre l’Atlantico, lontano dalle guerre tra Regno Unito e Francia. Egli sosteneva che questo “cuscinetto” naturale avrebbe dovuto guidare la politica estera americana, evitando alleanze permanenti che avrebbero legato il destino della giovane nazione a conflitti esterni. Questo principio ha orientato la politica estera statunitense fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando il paese iniziò a costruire una rete di alleanze regionali.

Tuttavia, il cuore della geopolitica non risiede solo nelle decisioni e nei discorsi dei leader o nelle strategie pratiche: il vero campo di battaglia è la geopolitica popolare, ovvero il discorso geopolitico quotidiano cui i cittadini sono immersi. In una democrazia, il consenso popolare è spesso indispensabile per le scelte di politica estera. L’esempio del 2018, quando il presidente Trump impose tariffe su beni importati da paesi alleati come Canada, Regno Unito, Francia e Germania, illustra bene questo fenomeno. La giustificazione ufficiale di protezione della sicurezza nazionale incontrò la diffidenza degli alleati e suscitò ironia e critica nell’opinione pubblica e nei media. La risposta di Trudeau, che citò un evento storico non direttamente imputabile al Canada, e le reazioni satiriche diffuse nei media statunitensi dimostrarono come un discorso geopolitico “formale” possa infrangersi contro una narrativa popolare radicata.

La forza della geopolitica popolare risiede nel modo in cui i media – in tutte le loro forme, dalla stampa tradizionale alle serie televisive, ai film, ai fumetti e ai social media – veicolano e plasmano la percezione collettiva del mondo. I media non si limitano a informare: colonizzano l’esperienza individuale, formando preconcetti su luoghi e popoli lontani. L’immagine stereotipata del Canada come nazione amichevole e pacifica è frutto di decenni di rappresentazioni nella cultura popolare, dalla commedia al cinema, che hanno creato un immaginario condiviso difficilmente scalfibile da discorsi geopolitici contrari.

Il ruolo della cultura popolare come mediatore di significati geopolitici si manifesta chiaramente nei film della Guerra Fredda. Pellicole come Red Dawn (1984) e Rocky IV (1985) consolidavano una narrativa di contrapposizione morale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, in cui i sovietici venivano rappresentati come minaccia aggressiva e sleale, mentre gli americani incarnavano il trionfo di valori di determinazione e giustizia. Queste rappresentazioni, benché oggi possano apparire caricaturali, rafforzavano un senso di identità collettiva e giustificavano una postura politica aggressiva. L’evoluzione dei nemici nei remake o nelle produzioni successive, come la sostituzione dei sovietici con nordcoreani o nazionalisti russi, dimostra come la geopolitica popolare si adatti ai mutamenti storici, mantenendo però invariata la dinamica di distinzione tra “noi” e “gli altri”.

Nonostante l’importanza dei media nel modellare la geopolitica popolare, questa non si limita a una mera ricezione passiva di messaggi dall’alto. Essa si costruisce anche dal basso, attraverso discussioni, esperienze quotidiane e pratiche collettive che si intrecciano con le rappresentazioni mediali. Eventi globali come la Coppa del Mondo di calcio diventano così piattaforme in cui si esprime e si rafforza l’identità nazionale, producendo narrazioni condivise che trascendono la mera competizione sportiva.

È fondamentale comprendere che la geopolitica popolare non si riduce a una semplice esposizione di fatti, ma è un processo di costruzione culturale e simbolica che influenza come le società percepiscono se stesse e gli altri. La mediazione attraverso le forme culturali traduce dinamiche geopolitiche complesse in narrazioni comprensibili e spesso emotivamente coinvolgenti. Questo processo ha conseguenze reali sulle relazioni internazionali, poiché modella il consenso e la resistenza alle politiche estere, determina le immagini degli “amici” e dei “nemici”, e guida le aspettative delle popolazioni.

Il lettore dovrebbe tenere presente che ogni rappresentazione geopolitica è intrinsecamente interpretativa e contestata, plasmata da interessi, valori e contesti culturali. La geopolitica popolare è quindi un terreno di scontro simbolico, dove si negoziano identità, poteri e alleanze non solo con le armi o la diplomazia, ma con le parole, le immagini e i simboli. Comprendere questo aspetto aiuta a decifrare i meccanismi di potere che influenzano le politiche mondiali e la percezione collettiva, andando oltre la superficie dei fatti per cogliere le dinamiche profonde della convivenza globale.

Come si crea e si trasforma l’egemonia culturale nel quotidiano?

Il concetto di egemonia culturale, elaborato da Gramsci, ha subito un'evoluzione radicale e inaspettata. Nato come strumento critico marxista per denunciare il modo in cui le élite dominanti mantengono il potere non solo attraverso la coercizione economica o politica, ma attraverso la costruzione del consenso culturale, esso è stato successivamente appropriato e riadattato da forze politiche diametralmente opposte. Negli Stati Uniti, ad esempio, la destra conservatrice ha saputo sfruttare il potenziale gramsciano, spostando il conflitto dalla dimensione classista verso quella culturale, facendo leva su temi identitari come l’immigrazione, la religione o il matrimonio omosessuale. Questo spostamento ha permesso la saldatura di interessi economici divergenti – conservatori sociali delle classi lavoratrici e medie da un lato, e conservatori fiscali delle classi medie e alte dall’altro – in un’unica alleanza politica funzionale.

Questo stesso meccanismo di trasformazione ideologica può essere osservato su scala globale, dove la Guerra Fredda ha operato una simile riconfigurazione. L’apparente conflitto ideologico tra Est e Ovest ha oscurato il reale asse economico Nord-Sud, dissimulando la questione dello sfruttamento coloniale e post-coloniale attraverso una narrazione di contrapposizione ideologica. In entrambi i casi, come Gramsci avrebbe previsto, la cooptazione delle masse ha richiesto concessioni: in Europa occidentale ciò si è tradotto nella costruzione dello stato sociale; negli Stati Uniti, in una sua versione attenuata, con minori interventi statali ma sufficiente a incentivare il consumo di massa.

Il consumo di massa, incentivato dalla redistribuzione parziale della ricchezza verso le classi lavoratrici, diventa quindi il terreno fertile della cultura popolare. Ed è qui che interviene Michel Foucault, il cui pensiero si intreccia con quello gramsciano, pur discostandosi profondamente dalle sue fondamenta marxiste. Foucault, esponente di punta del post-strutturalismo, non considera l’economia né la classe sociale come gli assi fondamentali della realtà. Il suo interesse si concentra invece sul discorso: su come il linguaggio, e ciò che esso rende dicibile, costituisca la realtà stessa attraverso quello che egli definisce “regimi di verità”. La verità, per Foucault, non è un dato oggettivo, ma un effetto transitorio del potere, prodotto e riprodotto attraverso il discorso dominante.

Se Gramsci vedeva la cultura come maschera ideologica delle contraddizioni materiali, Foucault vede ogni discorso – compreso quello gramsciano – come una pratica di potere in competizione con altre. L’esempio paradigmatico è il dibattito statunitense sull’evoluzionismo contro il disegno intelligente: laddove entrambi i fronti si percepiscono portatori della “verità”, Foucault vedrebbe due posizionamenti discorsivi che lottano per imporsi come egemoni, ciascuno cercando di legittimarsi attraverso il linguaggio della scienza e delegittimare l’altro.

È proprio questa ambiguità epistemologica che rende le teorie foucaultiane difficilmente strumentalizzabili a fini politici tradizionali: esse demoliscono tanto le posizioni dell’avversario quanto le proprie, mettendo in discussione la legittimità stessa del discorso. Tuttavia, nel campo accademico, questa prospettiva si è rivelata potentemente feconda, offrendo strumenti per decifrare le modalità con cui le narrazioni si impongono nella vita quotidiana.

È su questo piano che si inserisce il contributo di Michel de Certeau. Se Foucault sposta l’attenzione dal potere centralizzato alla microfisica del potere diffuso, de Certeau si focalizza sulle pratiche quotidiane di consumo, sulle modalità con cui gli individui si appropriano dei prodotti culturali imposti loro dall’alto. Egli distingue tra strategie – le forme istituzionalizzate e pianificate di potere, proprie delle élite – e tattiche, ovvero gli usi creativi, a volte sovversivi, che gli individui mettono in atto per piegare quei dispositivi di potere alle proprie esigenze. La forza del pensiero di de Certeau sta proprio nel rendere visibile la dimensione performativa della vita quotidiana, spesso invisibile e inconsapevole, ma profondamente politica.

Ciò che emerge è un’idea di egemonia non più monolitica, bensì fluida, articolata e situata. L’egemonia si costruisce e si trasforma attraverso il consumo culturale, le pratiche discorsive e le microresistenze quotidiane. La cultura popolare non è più solo il prodotto di una sovrastruttura economica, ma diventa essa stessa un terreno di lotta, un campo in cui si decide cosa è vero, cosa è giusto, cosa è normale.

È fondamentale, per comprende

Come si costruiscono le rappresentazioni geografiche e quale potere esercitano?

L’insegnante che trasmette conoscenze geografiche agli studenti spesso non fa che rielaborare rappresentazioni già acquisite da altre fonti, come lezioni precedenti, cultura popolare o media. Anche quando ha visitato personalmente un luogo, la sua esperienza resta inevitabilmente parziale e non sufficiente a definire una verità generale. La capacità dei geografi e degli accademici di rappresentare il mondo tramite lezioni, libri o mappe ha avuto storicamente conseguenze profonde per le popolazioni locali, a volte positive ma spesso problematiche, suscitando riflessioni etiche sull’atto stesso di rappresentare altri luoghi.

La geografia, disciplina nata con l’intento di “scrivere la Terra” (dal greco γεωγραφία), traduce il mondo che viviamo o comprendiamo in immagini di vario tipo: scritte, visive, orali o sonore. Le forme di rappresentazione spaziano da testi accademici, articoli, romanzi e poesie, a mappe, fotografie, film e musiche che raccontano storie del rapporto tra persone e luoghi. La cartografia, in particolare, traduce la complessità del mondo in mappe che selezionano e ordinano gli elementi considerati rilevanti, operazione che è sempre politica: per esempio, una mappa promossa da un’agenzia turistica tenderà a evidenziare aspetti attrattivi, trascurando quelli scomodi o conflittuali.

Un caso emblematico è il libro di geografia di Isaiah Bowman pubblicato dopo la Prima Guerra Mondiale, che contribuì a naturalizzare e legittimare l’assetto geopolitico derivante dal Trattato di Versailles, influenzando così la percezione e la realtà politica di intere nazioni. La diffusione capillare delle rappresentazioni geografiche può generare confusione e disorientamento: cosa è vero e cosa no? Quanto di ciò che consideriamo “fatti” è costruito per rafforzare convinzioni preesistenti? Piuttosto che cedere allo scetticismo totale, è più proficuo analizzare come queste rappresentazioni vengano usate selettivamente e quali effetti concreti producano nel mondo reale.

Rappresentare un luogo significa sempre confrontarlo con altri, perché non esiste una descrizione neutra e indipendente. Dire che un posto è “caldo” o “inquinato” significa fare riferimento a un punto di paragone, che può essere la propria esperienza o un’idea convenzionale. Tuttavia, queste rappresentazioni sono per definizione incomplete e non riescono mai a catturare l’interezza e la dinamicità di un luo

Come si formano e si trasformano le nazioni: un’analisi tra primordialismo, modernismo e poststrutturalismo

L’idea che le identità nazionali siano semplicemente dati fondamentali e immutabili dell’esistenza umana è una prospettiva spesso associata al primordialismo. Questo approccio ritiene che le nazioni siano radicate in caratteristiche culturali, e talvolta biologiche, profonde e antiche, come legami di parentela originari delle prime società umane. Tuttavia, questa visione fatica a spiegare il cambiamento storico e sociale, ovvero come e perché le nazioni evolvono o si trasformano nel tempo. Un esempio emblematico è rappresentato dall’Africa postcoloniale, dove la tensione politica spesso nasce dal fatto che stati moderni inglobano molteplici nazioni tradizionali che non si riconoscono in una nuova identità statale.

Il modernismo offre una risposta diversa, collocando la nascita del nazionalismo nell’epoca moderna, in particolare dalla fine del XVIII secolo. Secondo questa prospettiva, la formazione delle nazioni è il risultato di processi storici e socioeconomici legati alla modernità: industrializzazione, capitalismo, secolarizzazione e urbanizzazione. La società agricola e feudale, caratterizzata da legami locali e particolaristici, viene sconvolta dall’industrializzazione che spinge masse di persone verso le città, privandole dei tradizionali riferimenti sociali e familiari. In questo contesto, si rende necessaria la costruzione di una nuova identità collettiva che unisca cittadini e leader statali, non più basata su rapporti di vassallaggio ma su un senso condiviso di appartenenza nazionale.

La complessità del modernismo si riflette nelle diverse interpretazioni degli studiosi. Eric Hobsbawm vede il nazionalismo come uno strumento delle élite per controllare una popolazione sempre più mobile e democratica, sebbene nutra dubbi sulla sua persistenza in un mondo globalizzato dove flussi transnazionali di persone, beni e informazioni diventano la norma. Al contrario, Benedict Anderson sottolinea il ruolo cruciale del “capitalismo della stampa” nel creare comunità immaginate attraverso la standardizzazione delle lingue vernacolari, un processo che ha favorito la coesione nazionale. Pur riconoscendo le trasformazioni tecnologiche, Anderson rimane meno pessimista riguardo alla tenuta del nazionalismo rispetto a visioni che postulano il suo declino.

Tutti questi approcci modernisti si contrappongono all’idea primordialista che le nazioni siano entità innate e immutabili. Essi sottolineano invece che il concetto di nazione è una costruzione storica emersa in un contesto temporale e geografico specifico, invitandoci a riconsiderare e spesso correggere le interpretazioni storiche che applicano retrospettivamente categorie nazionali moderne a popolazioni e culture del passato.

La prospettiva poststrutturalista sposta ulteriormente l’attenzione sul presente, inteso come il luogo in cui le nazioni si costituiscono e si rinegoziano continuamente attraverso narrazioni e rappresentazioni culturali. A differenza dei modernisti, che si focalizzano sui popoli come soggetti delle nazioni, i poststrutturalisti considerano i miti e le narrazioni nazionali come costitutivi stessi della nazione, con il popolo che ne deriva come effetto. Un esempio paradigmatico è l’insegnamento della storia nazionale nelle scuole, dove la narrazione seleziona e definisce ciò che è rilevante per l’identità collettiva, escludendo o marginalizzando gli “altri”, interni o esterni, che fungono da contrappunti identitari.

Questa costruzione narrativa è aperta, si estende idealmente indietro nel tempo e proietta la nazione verso un futuro indefinito, conferendo alla nazione una natura immateriale e fluida che si realizza nella mente e nella cultura. Le nazioni, così intese, sono entità viventi, continuamente reinventate attraverso storie, simboli e pratiche culturali.

Oltre a comprendere queste diverse teorie, è fondamentale per il lettore riconoscere che l’identità nazionale non è mai un dato statico o univoco, ma un processo dinamico che intreccia storia, economia, cultura, linguaggio e potere. Le narrazioni nazionali, per quanto costruite e talvolta manipolate, svolgono un ruolo cruciale nella coesione sociale e nelle dinamiche politiche contemporanee. La comprensione critica di come si formano e si trasformano le nazioni aiuta a decostruire miti nazionalisti e a leggere in modo più sfumato le tensioni identitarie del presente, specie in un mondo globalizzato e interconnesso.

In che modo la cultura popolare è una forma di geopolitica?

Il rapporto tra cultura popolare e geopolitica non è immediatamente evidente a chi considera la geopolitica un dominio esclusivo delle élite, dei governi e delle istituzioni internazionali. Tuttavia, una riflessione più profonda rivela come la cultura popolare non solo rifletta, ma anche influenzi attivamente le rappresentazioni di potere, identità e spazio geografico nel mondo contemporaneo. La parola "propaganda", frequentemente utilizzata in questo contesto, ne è un esempio eloquente: essa implica un uso intenzionale dei media per plasmare sentimenti collettivi a favore di chi produce il messaggio, ma viene quasi sempre applicata per delegittimare le narrazioni altrui. Così, un film, una canzone o un reportage possono essere percepiti come propaganda o intrattenimento a seconda del punto di vista ideologico e dell’identità del fruitore.

L’esempio del film The Interview, che ironizza sulla propaganda nordcoreana, mostra la complessità di questi meccanismi: mentre alcuni lo vedono come un tentativo di smascherare il controllo mediatico del regime di Pyongyang, altri lo interpretano come un veicolo di propaganda statunitense funzionale a un’agenda politica ostile. Questo dualismo evidenzia che il confine tra verità e propaganda è spesso instabile, soggettivo e profondamente legato alle identità geopolitiche dei soggetti coinvolti.

L’identità, pertanto, è un nodo centrale. Non si tratta soltanto di una questione personale, ma di una costruzione sociale e politica che si è trasformata radicalmente nel corso degli ultimi decenni. A partire dagli anni Sessanta, con l’emergere dei movimenti per i diritti civili, l’identità è diventata uno spazio contestato, un terreno di lotta simbolica e materiale in cui si negozia la posizione dell’individuo nella società. I processi di globalizzazione, lungi dal cancellare le identità locali o nazionali, le hanno invece rese più fragili e, paradossalmente, più visibili e rivendicate. Il costante flusso di persone, idee e merci ha moltiplicato le definizioni possibili dell’“io” e del “noi”, rendendo la questione identitaria una componente indispensabile per comprendere il significato della cultura popolare.

La cultura popolare è doppiamente geografica: nasce in determinati contesti, ma circola attraverso confini, rielaborata e consumata in ambienti culturali diversi da quelli di origine. Essa trasmette narrazioni su luoghi e identità, definendo chi conta e chi no nel panorama globale. Allo stesso modo, la geopolitica non è solo una pratica statale o diplomatica: è anche un dispositivo culturale che assegna valori e significati ai luoghi, costruisce gerarchie tra popoli e territori, e distingue tra soggetti attivi e passivi nella formazione del mondo. Considerare la geopolitica solo come prerogativa delle élite significa contribuire a rafforzare queste gerarchie, ignorando i modi in cui le persone comuni partecipano alla produzione di senso geopolitico.

È proprio qui che si inserisce il campo della geopolitica popolare: uno spazio analitico dedicato allo studio delle esperienze quotidiane della geopolitica attraverso la cultura visiva, la narrativa, la musica, il cinema e gli altri mezzi della produzione culturale. Questo approccio non è rigidamente definito né delimitato da confini disciplinari netti; al contrario, si nutre di intersezioni con la geografia culturale, gli studi internazionali, la teoria critica e le scienze sociali più in generale. Molti studiosi che si occupano di questi temi non si definiscono necessariamente esperti di geopolitica popolare, eppure il loro lavoro contribuisce in modo decisivo alla comprensione delle dinamiche attraverso cui la cultura plasma l’immaginario politico globale.

Il valore della geopolitica popolare risiede proprio nella sua capacità di evidenziare come anche le forme culturali più apparentemente innocue – un videoclip musicale, un meme, una serie televisiva – si