Nel panorama della storia dei mezzi di comunicazione, la radio si distingue per una sua caratteristica che potrebbe sembrare sorprendente: l'assenza di scandalosi episodi di notizie false o manipolate, fenomeno invece spesso presente in altre forme di giornalismo. È un aspetto che merita attenzione, soprattutto se consideriamo che la radio è stata uno dei principali strumenti di diffusione delle informazioni nel corso del Novecento. Ma come mai, nonostante la sua potenza e la sua capacità di raggiungere un vasto pubblico, non sono mai emersi veri e propri scandali legati alla disinformazione?
La spiegazione a questa domanda risiede in un elemento chiave: il controllo statale. La radio, fin dai suoi albori, è stata sottoposta a regolamenti severi e licenze che ne limitavano l'operato. Negli Stati Uniti, ad esempio, già prima della Prima Guerra Mondiale, erano in vigore normative che vietavano l'invio di segnali di distress o messaggi falsi. La legge stabiliva che ogni operatore di radio fosse responsabile della veridicità delle comunicazioni trasmesse. Questo controllo rigoroso da parte delle autorità federali e la necessità di licenze per trasmettere notizie ha fatto sì che gli abusi nel campo della radiofosse estremamente rari. La guerra dei mondi, trasmessa nel 1938 da Orson Welles, rappresenta l'unico episodio che suscitò un'ondata di panico, ma anche in questo caso non fu registrato alcun danno significativo per la pubblica tranquillità.
La chiave del sistema di auto-regolamentazione sta nel fatto che le stazioni radio, per poter operare, dovevano mantenere al loro interno uffici di controllo per garantire che le trasmissioni fossero conformi agli interessi pubblici e alle normative. L'autocensura in atto tra i proprietari delle stazioni radiotelevisive ha permesso di preservare una sorta di equilibrio: pur senza un intervento diretto da parte del governo, la radio si trovava, in effetti, sotto un controllo costante e delicato.
Il contesto tecnico, tuttavia, non era meno rilevante. La radio utilizza una risorsa naturale limitata: lo spettro delle frequenze. Questo, come l'aria che respiriamo, è un bene inalienabile e, di conseguenza, necessitava di una regolamentazione da parte dello Stato. Negli Stati Uniti, la Commissione Federale delle Comunicazioni (FCC) ha avuto il compito di allocare le frequenze per le trasmissioni, un'operazione fondamentale per evitare il caos nell’aria. La radio non sarebbe stata possibile senza questa regolamentazione, e il sistema delle licenze ha creato un ambiente di trasparenza, se non di vera e propria censura, che ha garantito la veridicità delle informazioni trasmesse.
L'evoluzione della radio, che inizialmente era percepita come una tecnologia militare, ha visto il suo vero sviluppo solo durante la Grande Guerra, quando venne utilizzata per la comunicazione tra le navi e tra i diversi reparti militari. Dopo il conflitto, il passo successivo fu la sua diffusione tra il pubblico civile. Nel 1926, negli Stati Uniti, la creazione di stazioni radio con programmi regolari segnò il definitivo passaggio della radio da tecnologia militare a mezzo di comunicazione di massa. La radio cominciò a trasmettere musica, spettacoli dal vivo, e notizie, rendendosi così uno dei mezzi di intrattenimento e informazione più diffusi.
Tuttavia, anche in questo periodo di grande sviluppo, la radio si trovava ancora sotto il controllo delle autorità statali. Nonostante la proliferazione delle stazioni e la loro diffusione commerciale, l’allocazione delle frequenze e la necessità di licenze per operare rimasero un elemento imprescindibile per garantire che la radio non venisse usata per fini che potessero compromettere l’interesse pubblico.
L'idea che la radio fosse un mezzo di libera espressione, così come la conosciamo oggi, era un concetto che doveva ancora evolversi. La combinazione di autogoverno delle stazioni e il monitoraggio del governo impediva che la radio diventasse uno strumento di manipolazione sistematica delle informazioni. In altre parole, la radio veniva "auto-censurata" dai suoi stessi proprietari, mantenendo così un equilibrio delicato tra libertà di espressione e necessità di regole per garantire che le informazioni fossero veritiere e utili alla società.
È fondamentale comprendere che il controllo sulle trasmissioni radio non era una mera imposizione burocratica, ma una risposta alla limitatezza delle risorse fisiche necessarie per le trasmissioni. Lo spettro delle frequenze era limitato e, senza una gestione attenta e regolata da parte delle autorità competenti, sarebbe stato impossibile garantire l'ordine nelle trasmissioni. Questo aspetto, che potrebbe sembrare una limitazione alla libertà, è in realtà la chiave per capire perché la radio sia riuscita a evitare scandali e disinformazione. La regolamentazione, anziché soffocare la libertà di espressione, ha permesso una diffusione responsabile delle informazioni.
Come la Documentazione Etnografica si Confronta con il Giornalismo: Un’Analisi Critica delle Pratiche
La pratica etnografica, specie quando si avvicina alla documentazione filmica, come nel caso del lavoro di Chagnon con The Ax Fight, solleva questioni complesse sulla natura della rappresentazione, sull’imparzialità e sulla distorsione. Nonostante l’apparente violenza e la brutalità che emerge nell’incontro tra le due fazioni, il conflitto potrebbe essere letto sotto una luce completamente diversa, come una manifestazione di un ordine imposto in una situazione tesa, piuttosto che come un semplice esempio di “ferocia”. Paradossalmente, nonostante la presenza di machete, nessuno di essi viene effettivamente usato. Le asce, strumento centrale della scena, sono brandite con la parte smussata verso il nemico, una scelta che potrebbe suggerire una certa intenzionalità di evitare l'uso mortale degli oggetti. Tuttavia, l’elemento più importante, forse, è il fatto che Chagnon stesso abbia portato le asce nel villaggio, sebbene abbia negato che questo abbia contribuito ad acutizzare la tensione tra i partecipanti. L’incidente, quindi, non è stato causato da un’esplosione di violenza incontrollata, ma è stato, per lo meno, seriamente influenzato da un'azione occidentale non menzionata, il che pone interrogativi etici fondamentali sulla responsabilità e sull’impatto del ricercatore sul contesto che sta documentando.
Anche se questo errore etico sia grave, il lavoro di Chagnon segna un'importante distinzione nel campo dell’antropologia visiva. Richard Sorenson, un altro accademico di riferimento, definisce come "Cinema Research Records" la modalità con cui Chagnon approccia The Ax Fight, un film che non viene montato e che presenta un’immediata crudezza visiva, senza i consueti interventi narrativi. Sorenson aveva, negli anni '60, prodotto film che documentavano la vita dei Fore, un popolo della Papua Nuova Guinea, in un formato simile, senza modificare la realtà dei fatti. Questi film, pur essendo fondamentali come materiali per l’antropologia, non si qualificano come etnografie complete, ma piuttosto come note di campo grezze da cui queste possono essere sviluppate. L’antropologia tradizionale, infatti, si fonda sull’osservazione diretta, la quale, alla fine, deve essere scritta e narrata in un secondo momento. Nel caso dell’antropologia visiva, la registrazione filmica è il primo passo, mentre il processo di scrittura corrisponde alla costruzione narrativa secondo le convenzioni cinematografiche occidentali, spesso drammatiche.
Sorenson fa riferimento a questi film come "film dimostrativi", che rappresentano la base dell'archivio dei classici dell’antropologia visiva, ma sono anche i più vulnerabili alle distorsioni narrative imposte dalla necessità di renderli accessibili al grande pubblico. Questa trasformazione inevitabile del materiale grezzo in una narrazione fluida è simile alla trasformazione che subiscono le note di campo nel lavoro scritto dell’antropologo, ma è un processo che somiglia anche molto a quello che i giornalisti fanno con le proprie fonti: una volta filtrate, le informazioni diventano un prodotto finale che racconta una storia, ma che potrebbe non riflettere la complessità e la nuance dei fatti originali.
Geertz, uno dei più noti antropologi, ha parlato di "descrizione spessa" come di un metodo che comporta la lettura delle culture come un insieme di testi, che l'antropologo si sforza di decifrare attraverso il punto di vista di chi quei testi appartengono. Questo approccio è difficile da applicare nel giornalismo, il cui obiettivo è esplicitamente quello di raccogliere informazioni in modo aperto e spesso con l'intento di estrapolare dati per scopi pratici o politicamente rilevanti. Tuttavia, il giornalismo moderno, pur mirando a raccogliere informazioni, non adotta le stesse metodologie etnografiche. Non esistono nel giornalismo versioni "grezze" delle sue riprese o delle sue interviste. Il giornalismo tende a dare un quadro più chiaro, ma non necessariamente più profondo della realtà che descrive.
Un altro punto critico è la difficoltà di separare l’antropologia dalla sociologia. Entrambe le discipline si interessano ai testi sociali, cercando di comprendere le strutture sottostanti della società. Eppure, quando la sociologia inizia a misurare fenomeni quantificabili, si avvicina pericolosamente alle scienze "dure", e in certe aree del giornalismo, come quello che si occupa di statistiche o crimini, possiamo trovare affinità metodologiche, seppur limitate. Il crimine, ad esempio, è stato uno degli ambiti nei quali la statistica, a partire dal XIX secolo, ha trovato un'applicazione evidente, grazie a matematici come Adolphe Quételet, che, analizzando i dati sui crimini, notò modelli costanti nei comportamenti criminali. Se si fosse potuto predire con certezza il crimine, come si fa per i nascituri e i decessi, sarebbe stato possibile sviluppare politiche predittive per prevenire o trattare il crimine stesso.
In un’altra dimensione, quella più giornalistica, figure come Henry Mayhew hanno utilizzato metodi simili per documentare le condizioni di vita dei poveri a Londra durante l’epoca vittoriana. Mayhew, noto giornalista, raccoglieva dati attraverso interviste dirette a persone in povertà, mettendo in relazione le storie individuali con l'analisi delle condizioni generali. Il suo obiettivo era simile a quello di un sociologo, ma nel contesto di una pratica giornalistica che mirava a sensibilizzare il pubblico. Sebbene Mayhew fosse lontano dall’essere un "ricercatore scientifico", il suo approccio nel raccogliere dati sociali e nel fornire una narrazione dettagliata della vita dei poveri, sia attraverso i suoi articoli che con il supporto di fotografi, rappresenta una forma di "inchiesta scientifica", che anticipa alcune pratiche che poi saranno riprese dalla sociologia e dall’antropologia.
È fondamentale per il lettore comprendere che sia l’antropologia visiva che il giornalismo, nonostante possiedano obiettivi e metodi differenti, si trovano ad affrontare la stessa problematica: come rappresentare in modo fedele la realtà, senza manipolarla o distorcerla secondo paradigmi preesistenti. La distanza tra l’osservazione pura e la narrazione soggettiva, che può sembrare inevitabile, è un campo di continua riflessione e critica per entrambe le discipline.
Quanto è possibile che i media influenzino il comportamento sociale?
La relazione tra i media e l'influenza sul comportamento sociale è spesso oggetto di discussione, specialmente quando si tratta di fenomeni come le fake news o le campagne di disinformazione. Nonostante l'ampio dibattito e le numerose teorie sulla questione, la ricerca in questo campo non ha ancora fornito prove conclusive che dimostrino un legame diretto tra i media e cambiamenti significativi nel comportamento delle persone. Un documento di ricerca pubblicato nel settembre 2019 da Chatham House, intitolato "EU-US Cooperation on Tackling Disinformation", ha osservato che, purtroppo, i legami chiari e verificabili tra causa ed effetto mancano ancora nelle ricerche sulla disinformazione. L'efficacia delle attuali strategie, come la trasparenza, deve essere adeguatamente valutata, poiché senza meccanismi di controllo e applicazione, la trasparenza può facilmente diventare una mera distrazione.
In effetti, le nuove tecnologie della comunicazione sembrano non essere troppo differenti dai metodi di comunicazione politica più tradizionali. Uno studio del 2018, che ha analizzato 49 esperimenti sul comportamento elettorale negli Stati Uniti, ha concluso che la pubblicità elettorale aveva "un effetto medio pari a zero nelle elezioni generali". L’esempio famoso del "IT'S THE SUN WOT WON IT" pubblicato dal tabloid londinese The Sun dopo le elezioni britanniche degli anni '90 è una conferma di questa mancanza di legame diretto: l'affermazione era, e continua ad essere, una semplice affermazione priva di fondamento. In breve, si potrebbe argomentare che i media possano influenzare la massa della popolazione, ma al massimo in modi non devianti e, tranne nei casi di carità, su questioni di relativamente poca importanza.
Tuttavia, è importante non sottovalutare il potenziale impatto dei media in determinate circostanze, poiché questi, sebbene difficili da misurare, possono produrre cambiamenti significativi, seppur non sempre evidenti nel breve periodo. Gli effetti dei media sull'individuo non sono solo indiretti, ma possono risalire anche a lungo tempo prima, con l’accumulo di esperienze e influenze sociali che operano in un processo di socializzazione continuo. Non si tratta solo di ciò che i media presentano, ma di come queste informazioni si accumulano nel tempo, contribuendo alla costruzione delle nostre visioni del mondo.
Un altro aspetto fondamentale riguarda la responsabilità etica dei giornalisti nell’influenzare il comportamento del pubblico. Seppur esista una certa responsabilità nell'offrire una copertura equa e veritiera, non sempre è possibile tracciare un danno chiaro derivante dalle azioni dei media, soprattutto quando le influenze sono più sottili o indirette. L’etica del giornalismo, quindi, non può basarsi solo su una valutazione immediata dell’impatto: è necessaria una riflessione più ampia sulla libertà di espressione e sulla natura del "danno" che i media potrebbero causare. In effetti, l'emergere della sensibilità verso il "danno emotivo" è una questione che è cresciuta notevolmente dal XVIII secolo fino ai nostri giorni, ma ciò non implica che ogni offesa o disagio emotivo possa essere considerato come un danno legale o come una giustificazione per limitare la libertà di stampa.
Nonostante questa crescente sensibilità, le influenze psicologiche o emotive causate dai media non devono portare a un'interpretazione eccessivamente restrittiva della libertà di comunicazione. La libertà di espressione non può essere vincolata dalla paura di causare disagi emotivi ai lettori o spettatori. La questione di ciò che costituisce un danno rimane un campo di dibattito difficile da definire, e la responsabilità etica di un giornalista, quindi, dovrebbe rimanere focalizzata sul suo dovere di presentare fatti veritieri senza trasformare la produzione di notizie in un meccanismo di manipolazione delle emozioni del pubblico.
In definitiva, è importante riconoscere che l'influenza dei media non è sempre diretta o facilmente misurabile, e che, pur essendo fondamentale l'accuratezza e la trasparenza delle informazioni, non è sempre possibile quantificare l'impatto che queste informazioni avranno sul comportamento delle persone. Tuttavia, in alcune situazioni, l'influenza dei media può essere più concreta e facilmente misurabile, come nel caso di eventi che riguardano questioni sociali, politiche o legali di grande rilevanza. Il caso di Stephen Lawrence, il giovane ucciso nel 1993 il cui omicidio è stato trattato con grande rilievo dalla stampa, è un esempio lampante di come la stampa possa avere un impatto significativo, influenzando l'opinione pubblica e le risposte istituzionali.
Sebbene i media abbiano il potere di influenzare, è altrettanto fondamentale che i giornalisti siano consapevoli della loro responsabilità e dei limiti etici nell’esporre la vita delle persone al pubblico. La sfida etica di fare "nessun danno" diventa particolarmente rilevante quando le persone coinvolte sono vulnerabili o quando l'intenzione dei media è quella di danneggiare deliberatamente la reputazione o la vita di qualcuno. Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente quando la persona coinvolta è una celebrità, dove l'interazione con i media è parte della costruzione dell'immagine pubblica, ma dove il confine tra l'informazione e la spettacolarizzazione della vita privata si fa sempre più sfumato.
In questo contesto, è importante capire che l'informazione non può essere ridotta solo a un gioco di manipolazione delle emozioni o dei comportamenti. Il compito del giornalista è quello di produrre contenuti che riflettano la verità, senza cadere nell'inganno o nella spettacolarizzazione, e che siano consapevoli delle conseguenze a lungo termine che le loro scelte editoriali possono avere sulla vita delle persone.
La manipolazione delle informazioni e il comportamento umano: una riflessione critica sui media e sulle teorie del complotto
Il giornalista d’inchiesta Carole Cadwalladr, che ha condotto un esercizio esemplare di giornalismo investigativo, ha ricevuto ben nove premi giornalistici e una nomination al Pulitzer per la scrupolosità e l'importanza del suo lavoro. Non si può mettere in dubbio il valore di questo lavoro come prova delle malformazioni legate all’uso di internet e delle difficoltà nel controllare le regole di spesa nelle campagne politiche. Tuttavia, non esistono prove dirette di una corruzione effettiva durante il voto. È importante ricordare che i media non hanno mai dimostrato in modo convincente di esercitare effetti diretti sul loro pubblico, con un input uniforme che generi azioni simili in una massa di lettori o spettatori. L'idea che le truffe online, come quelle gestite dai mercanti di clickbait macedoni o dalle farm russe di troll, possano alterare una elezione, non è supportata da prove decisive.
I videogiochi non causano violenza, le radio-drammaturgie di classici di fantascienza non creano panico di massa, e i social media, nella misura in cui possiamo sapere, non determinano rivoluzioni latenti o modificano il corso delle elezioni. Per quanto riguarda la “fake news”, è essenziale non esagerare nel sottolineare il ruolo che internet ha avuto in questa situazione. Le false notizie non sono un fenomeno nuovo, né per la loro esistenza, né per la loro natura, né per l’impatto che hanno avuto, né per il potere che sono ritenute possedere. La stampa, la fotografia, la radio, la televisione, tutte le tecnologie precedenti hanno mutato il modo in cui le notizie vengono create e diffuse, ma questo non implica una differenza radicale nel processo stesso.
L'internet non ha creato le fake news, e non è in grado di risolvere il problema. Non bisogna cedere alla tentazione di fare dell'internet il capro espiatorio di tutti i mali attuali. Non bisogna infatti commettere l'errore di credere che il web sia un'entità invulnerabile a regolamenti o riforme, o di richiedere cambiamenti radicali che, in realtà, non risolverebbero nulla. Se il Web 2.0 non rappresenta un cambiamento di portata fondamentale, cosa lo rappresenta, allora? La risposta risiede nella natura stessa degli esseri umani: non siamo razionali come spesso ci piace pensare. I problemi che stiamo affrontando non sono causati solo dalla manipolazione intenzionale e dalla menzogna, ma anche dall’ignoranza, dalla stupidità e da vari tipi di irrazionalità.
La convinzione che la Terra sia piatta o che le scie chimiche stiano facendo chissà cosa, non sono fenomeni isolati. È importante ricordare il cosiddetto “Rasoio di Hanlon”: "Non attribuire alla malizia ciò che può essere spiegato con la stupidità". E in effetti, ciò che viene definito "stupidità" assume diverse forme, e nessuno è immune da queste. L'irrazionalità si manifesta nei cosiddetti “pendii scivolosi” (come il presupposto che la legalizzazione del matrimonio omosessuale porti inevitabilmente alla legalizzazione di altre forme di matrimonio aberranti), nella fallacia del "mondo giusto" (come nel caso di chi crede che l'istruzione non debba essere finanziata adeguatamente, perché il successo dipende solo dal duro lavoro), o nel fenomeno del "bandwagon" (come quando si crede che i videogiochi siano dannosi per i bambini solo perché lo dicono tutti). La ragione, dunque, è spesso fallibile, e il pensiero irrazionale ci accompagna nella vita quotidiana.
Un esempio di come tale irrazionalità possa condurre alla diffusione di teorie del complotto è la teoria secondo cui l'11 settembre sarebbe stato un "lavoro interno", una messa in scena. Ad esempio, alcuni negano la plausibilità che l’edificio World Trade Center 7 sia crollato a causa del fuoco, ritenendo che fosse stato distrutto da una bomba. Una volta avvalorato questo punto, il passo successivo è identificare i colpevoli: israeliani, militari statunitensi o, addirittura, il presidente Bush. Questo processo di "pensiero" illogico è alimentato e rinforzato dalla comunità online, dove l’informazione viene filtrata e distorta per adattarsi a convinzioni preesistenti.
La correlazione, o anche la semplice coincidenza, spesso viene interpretata come causa, un errore che si verifica facilmente quando si rifiuta di considerare l'evidenza contraria. Un esempio di questo fenomeno è il caso del presunto commercio sospetto di azioni delle compagnie aeree coinvolte nei tragici eventi dell’11 settembre. L'interpretazione "popolare" di questi dati ha portato alcuni a credere che fosse prova di un complotto. Tuttavia, una ricerca accurata ha mostrato che si trattava di una decisione di investimento completamente casuale.
Questo fenomeno è stato descritto secoli fa da Francis Bacon, il quale avvertiva che "la comprensione umana, una volta che ha adottato un'opinione, è incline a difenderla a tutti i costi". La tendenza a cercare conferme alle proprie credenze è un errore cognitivo che ci rende vulnerabili alle manipolazioni.
In definitiva, il vero problema non è tanto l’internet in sé, ma piuttosto la nostra capacità di discernere, di analizzare criticamente e di resistere a manipolazioni, sia virtuali che reali. È quindi essenziale comprendere che la vera sfida è affrontare l'irrazionalità umana, che si manifesta in vari modi, tra cui l'adesione a teorie infondate e la convinzione di avere sempre ragione, nonostante le prove contrarie.
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