Il ritratto di Shakespeare, appeso alla scalinata Heyer in Bennett Hall, ha rappresentato per molti anni un simbolo della tradizione culturale occidentale. Questa copia di cinque piedi per sette della famosa incisione proveniente dal First Folio, esposta nei primi anni '80, non era solo un elemento decorativo: era un segno visibile dell'affermazione di una cultura che si rifletteva nelle scelte didattiche e nelle battaglie politiche delle università americane. Prima degli anni '80, infatti, i conflitti culturali non erano così visibili come lo sarebbero diventati durante le cosiddette "guerre del canone", un periodo che ha visto un'intensa divisione tra conservatori e progressisti nel contesto accademico e culturale.
I conservatori si opponevano alla proliferazione di un curriculum multiculturale, sostenendo invece il valore di un canone tradizionale che metteva in primo piano autori classici come Shakespeare, Milton, Chaucer e T.S. Eliot. Questo punto di vista si fondava sulla convinzione che la cultura occidentale, con i suoi grandi autori, fosse un patrimonio fondamentale da preservare. D'altro canto, i progressisti chiedevano un ampio rinnovamento del curriculum, includendo scrittori e pensatori di minoranze e donne, spesso storicamente emarginati dalla tradizione letteraria dominante.
La contesa per il canone non si limitava a un dibattito accademico: era un riflesso di un conflitto più ampio, che coinvolgeva anche la società e le sue strutture di potere. Durante gli anni '60, le rivoluzioni sociali, come il movimento per i diritti civili e il femminismo, avevano scosso la cultura americana. Gli studenti, cresciuti in un clima di rinnovamento, chiedevano una rappresentazione più inclusiva delle diverse voci. Nel 1988, ad esempio, i docenti di inglese dell'Università di Stanford votarono per diversificare il loro programma, ma la risposta conservatrice fu altrettanto forte: libri come The Closing of the American Mind di Allan Bloom o The Western Canon di Harold Bloom difendevano strenuamente la centralità della cultura occidentale. In un certo senso, la "vittoria" dei progressisti nel campo delle lettere fu seguita dalla più ampia adesione della cultura accademica alla diversità. Nel 1998, ad esempio, gli autori più letti nelle università includevano Shakespeare, Austen, Woolf e Morrison, riflettendo un equilibrio tra la tradizione e la novità.
Questo conflitto, che tocca anche la questione dell'azione affermativa, ha visto il riemergere di dibattiti sul ruolo della "giustizia distributiva" in educazione e cultura. In effetti, l'azione affermativa, intesa come il tentativo di correggere le disuguaglianze storiche legate a razza, classe sociale e genere, ha alimentato un acceso confronto. Mentre alcuni considerano l'azione affermativa come una necessità per affrontare le disuguaglianze strutturali, altri la vedono come un ingiusto privilegio per certi gruppi a discapito di merito e capacità individuali.
A Penn, ad esempio, il ritratto di Shakespeare fu sostituito da un collage di scrittrici femministe durante il periodo di restauro nel 1994. Questo gesto, pur simbolico, rappresentava una risposta alla predominanza culturale dell'autore maschile, una forma di "azione affermativa culturale". In modo simbolico, l'inserimento di voci marginalizzate, come quelle delle scrittrici donne, sfidava l'idea di un canone letterario dominato da autori occidentali bianchi e maschi.
Tuttavia, la contraddizione di questa "azione affermativa culturale" non tardò a farsi sentire. Nel 1998, un gruppo di laureati rubò il ritratto di Shakespeare come parte di una provocazione. Dopo il loro ritorno, il quadro venne riappeso, ma la collezione di scrittrici rimase nascosta sotto il simbolo tradizionale. Questo episodio, purtroppo, segnò la consapevolezza di come la cultura dominante fosse in grado di ritornare rapidamente e riprendersi simbolicamente, nonostante le azioni progressive intraprese.
Nel 2012, la facoltà di inglese di Penn tentò di sostituire definitivamente il ritratto di Shakespeare con una rappresentazione che fosse più rappresentativa della diversità culturale. Ma l'inerzia politica e accademica, simile a quella che caratterizzava il periodo presidenziale di Obama, ha impedito qualsiasi cambiamento significativo. Le buone intenzioni progressiste si scontravano con la difficoltà di passare dalle parole all'azione. E proprio in questo contesto che si inserisce l'elezione di Donald Trump, che diventa il simbolo della resistenza dei valori conservatori contro il movimento di diversificazione culturale e sociale.
L'incapacità di agire, osservata anche nell'ambito accademico, rispecchia una più ampia stasi dei movimenti progressisti, che non sono riusciti a produrre cambiamenti sostanziali nelle strutture di potere. L'attivismo e il rinnovamento sembrano spesso bloccati da una combinazione di buone intenzioni e mancanza di coraggio politico, facendo crescere il divario tra il desiderio di cambiamento e la realtà della sua attuazione.
Il Caesar di Trump: L'Allegoria Politica nel Teatro Shakespeariano
Nel corso della storia, la figura di Giulio Cesare è stata continuamente utilizzata come veicolo per esprimere riflessioni politiche e sociali. Dai tempi di Shakespeare fino agli spettacoli moderni, Cesare ha incarnato i temi universali del potere, della tirannia e della resistenza. La figura del dittatore, rappresentata attraverso il personaggio di Cesare, ha trovato nuove forme e significati a seconda delle epoche storiche e delle contingenze politiche. Quando Orson Welles montò la sua produzione nel 1937, in un contesto di crescente tensione fascista, Cesare divenne Mussolini, e il messaggio politico era evidente. Ma quando il teatro di New York ha messo in scena una versione di Cesare nel 2017, un aspetto nuovo ha sorpreso il pubblico, evocando un parallelo controverso con l'amministrazione di Donald Trump.
L'opera di Shakespeare, pur essendo scritta secoli fa, ha una natura intrinsecamente allegorica che permette di adattarla a qualunque contesto. La rappresentazione del tradimento e dell'assassinio di Cesare, perpetrato da Bruto e dai suoi cospiratori, non è solo un atto di violenza politica, ma una riflessione sul costo morale e sociale della resistenza all’oppressione. In tempi di grandi conflitti, Cesare è stato visto come una figura di tirannia, un simbolo di un potere centralizzato e incontrollabile che mette a rischio la libertà degli individui.
Nel contesto dell'America del XVIII secolo, la produzione del 1770 al Southwark Theater di Filadelfia mostrava Cesare come un patriota che lottava per la libertà, parallelo alla lotta per l'indipendenza americana. Questa versione enfatizzava l'allegoria della lotta contro l'oppressione inglese, e l'immagine di Cesare come simbolo di un potere oppressivo risuonava con il sentimento di ribellione contro una monarchia straniera. Il legame tra politica e teatro era indissolubile, e l'uso di Cesare come metafora di un governo tirannico non era solo una scelta stilistica, ma un potente strumento di critica sociale.
Il legame tra la tragedia shakespeariana e le vicende politiche moderne è diventato ancora più evidente con la produzione del "Julius Caesar" al Public Theater di New York nel 2017. La messa in scena, con Cesare rappresentato da un attore che somigliava a Trump, ha suscitato un'ondata di controversie. L'idea di rappresentare un presidente in carica come un dittatore assassinado ha scatenato un acceso dibattito sulla politica, sulla libertà di espressione e sul significato di violenza politica in un'epoca così polarizzata. Ma ciò che ha reso particolarmente potente questa produzione non è stata solo la somiglianza fisica tra l'attore e il presidente, ma la natura del potere che Cesare rappresentava: un potere che, nel contesto della politica americana contemporanea, appariva sempre più autocratico e pericoloso.
In realtà, ciò che ha suscitato tanto scalpore non è stato solo il parallelismo tra Cesare e Trump, ma la tempistica e il contesto. Dopo i primi cento giorni dell’amministrazione Trump, un periodo segnato da tensioni politiche e da una crescente retorica violenta, la rappresentazione di un leader politico come tiranno sembrava meno una provocazione artistica e più una visione realistica dei pericoli legati al potere e alla democrazia. Il pubblico non ha semplicemente visto una rappresentazione teatrale, ma ha avvertito un monito che parlava di un'America divisa e minacciata dall'interno.
La produzione del "Julius Caesar" al Public Theater non è stata solo una provocazione estetica, ma una riflessione sui cambiamenti che stanno avvenendo nel contesto politico globale. Cesare, nel teatro di Shakespeare, è sempre stato un simbolo della tensione tra il potere assoluto e la resistenza. Oggi, il potere di un leader può sembrare meno idealista e più pericoloso, tanto che l'idea di un suo omicidio politico non sembra più una finzione lontana, ma una possibilità concreta. Il Cesare di Trump non è solo un uomo sul palcoscenico, ma un simbolo di un intero sistema politico che molti temono possa degenerare.
In aggiunta, è importante considerare come il teatro, da sempre uno strumento di critica sociale, ha continuato a svolgere un ruolo centrale nel formare l'opinione pubblica. Mentre le allegorie politiche nel teatro shakespeariano hanno sempre avuto una funzione di stimolo alla riflessione e alla discussione, nel contesto moderno esse risuonano con una potenza che va oltre la mera spettacolarizzazione. Le produzioni come quella del Public Theater non sono solo eventi culturali, ma eventi che entrano nel cuore del dibattito politico, sfidando i confini tra arte, politica e realtà.
Il caso di "Julius Caesar" e Trump solleva dunque una questione fondamentale: come il teatro può rispecchiare la realtà senza diventare strumento di propaganda, e come il pubblico può recepire questi messaggi senza ridurre l'opera a una semplice allegoria politica. L'arte non è mai stata solo una riflessione della società, ma anche un mezzo per influenzarla, per mettere in discussione le sue convinzioni e le sue paure. Ed è proprio in momenti di grande turbolenza che il potere del teatro, come nel caso di "Julius Caesar", si rivela più forte e urgente.
Perché Shakespeare? L'Interesse di Steve Bannon per la Tragedia e la Storia Ciclica
L'incontro casuale tra Steve Bannon e l'autrice del suo futuro progetto cinematografico iniziò in modo banale, ma si rivelò il punto di partenza di una lunga collaborazione artistica che avrebbe intrecciato la tragedia shakespeariana con le visioni apocalittiche del politico. Nel 1991, mentre si trovavano a un bar di Beverly Hills, Bannon e la sceneggiatrice discussero del futuro di un film su Shakespeare, una conversazione che segnò l'inizio di un sodalizio che durerà ben sedici anni.
A colpire Bannon non fu tanto l'aspetto letterario di Shakespeare, quanto la sua capacità di rappresentare il dramma storico come un ciclo di ascesa, decadenza e distruzione. L'interesse di Bannon per il drammaturgo inglese non era, quindi, un semplice tentativo di aderire a una moda, ma una scelta consapevole che si legava alla sua visione del mondo. Shakespeare, con la sua comprensione dei conflitti tra i poteri politici e le trasformazioni sociali, rifletteva perfettamente il senso di crisi che permeava la visione politica di Bannon.
La sua passione per le tragedie shakesperiane non era casuale. Bannon vedeva in esse un parallelo con la teoria della storia di William Strauss e Neil Howe, esposta nel loro libro The Fourth Turning: An American Prophecy (1997), che interpretava la storia come un ciclo di quattro fasi: crescita, trasformazione, disgregazione e crisi. Secondo questa teoria, gli Stati Uniti stavano entrando nella quarta fase, quella della crisi politica e rivoluzionaria, prevista per il periodo tra il 2005 e il 2025. La tragedia shakesperiana, con la sua visione ciclica della storia, si adattava perfettamente alla sua concezione di un mondo che stava per entrare in una fase catastrofica e rivoluzionaria.
L'interesse di Bannon per Shakespeare non si limitava all'analisi storica, ma si estendeva alla possibilità di utilizzare le opere del drammaturgo come mezzo per esplorare il concetto di lotta culturale. L'approccio di Bannon alla tragedia non si limitava alla lettura dei testi, ma alla loro reinterpretazione in chiave moderna. Questo fu evidente nel suo progetto di portare Tito Andronico nello spazio, un'idea che mescolava l'universo shakesperiano con quello di Star Wars, come se l'eterna lotta tra i poteri della politica e della cultura potesse essere ambientata in un contesto futuristico e intergalattico.
La visione di Bannon sulla storia non era lineare, ma ciclica, come quella di Shakespeare. Egli trovava nel dramma shakesperiano una riflessione sul destino dell'umanità: il passaggio dalla prosperità alla decadenza, dalla stabilità alla catastrofe. Questo concetto di tragedia, che attraversa la storia e si ripete incessantemente, rispecchiava la sua percezione del presente e del futuro. La storia per Bannon, come per Shakespeare, non era solo una successione di eventi, ma un ciclo eterno di ascesa e caduta, dove ogni crisi portava con sé la promessa di una nuova possibilità, ma anche la certezza di una grande distruzione.
La convinzione di Bannon che l'America stesse per affrontare una crisi politica catastrofica si radicava in una visione apocalittica della storia. La sua adesione alla teoria di Strauss e Howe non era solo un atto intellettuale, ma un'applicazione pratica delle loro idee. Come Guénon e Evola avevano cercato di fondare una visione radicale della modernità attraverso il tradizionalismo, Bannon voleva trasformare la teoria del Fourth Turning in un programma d'azione militante. La tragedia shakesperiana, in questo contesto, non solo forniva il quadro narrativo per il suo pensiero, ma anche una forma di legittimazione per la sua visione radicale del futuro.
Oltre alla visione storica e culturale, l'approccio di Bannon alle opere shakesperiane rifletteva anche una necessità di ritorno alle radici. La sua ricerca non era solo un'indagine sul potere e la politica, ma anche un tentativo di ricollegarsi a una tradizione che sentiva perduta. Come gli antichi miti, Shakespeare offriva a Bannon una via di fuga dalla modernità, un modo per immaginare un mondo dove le leggi della storia non fossero mai finite, ma continuassero a ripetersi.
Questo ritorno a una visione ciclica e tragica della storia non era un semplice interesse accademico o estetico per Bannon. Era un modo per interpretare il presente, un tentativo di comprendere le tensioni politiche e sociali del suo tempo attraverso la lente di una tradizione che, pur se antica, sembrava ancora capace di parlare all'uomo moderno. La tragedia di Shakespeare, quindi, diventava una chiave di lettura per la realtà contemporanea, in cui il conflitto, la disgregazione e la distruzione sembravano essere in agguato dietro ogni angolo.
Shakespeare, come modello di comprensione della storia e della politica, ha offerto a Bannon un'interpretazione della realtà che gli ha permesso di visualizzare il futuro come un momento di crisi e di rinascita. Con la sua rappresentazione della lotta tra i potenti e i deboli, tra il destino e la libertà, la tragedia shakesperiana si è rivelata una risorsa fondamentale per il pensiero politico di Bannon, come una mappa per navigare un mondo che stava per entrare in una fase di radicale cambiamento.

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