I cicli naturali dei materiali sono essenziali per mantenere l'equilibrio e la stabilità dell'ambiente. Gli elementi chimici si muovono tra vari serbatoi della biosfera, idrosfera, litosfera, pedosfera e atmosfera, garantendo la stabilità del sistema terrestre e rispondendo a cambiamenti che si verificano nel tempo. Tra i cicli fondamentali per la vita sulla Terra, vi sono quelli del carbonio, dell'ossigeno, dell'azoto, del fosforo e dello zolfo, insieme al ciclo idrologico. Attualmente, cresce l'impegno per monitorare quantitativamente i flussi di materiali, comprendendo le interazioni tra di essi e creando modelli che possano prevedere gli sviluppi futuri.
Un aspetto importante di questa dinamica riguarda il ciclo delle rocce, che implica la formazione, la trasformazione o la dissoluzione delle rocce attraverso processi fisici e chimici. Nonostante il ciclo delle rocce si sviluppi su scale temporali e spaziali completamente diverse, alcuni principi possono essere applicati ai cicli dei rifiuti minerali, come quelli provenienti da demolizioni edilizie. Il processo di erosione e alterazione può essere paragonato all’usura delle strutture edilizie, mentre la sedimentazione può rappresentare il recupero di materiali minerali, legati o non legati. Fino a questo punto, il riciclo dei rifiuti edilizi in aggregati riciclati per la base delle pavimentazioni o per la produzione di cemento è una pratica già consolidata. Solo quando i materiali minerali raggiungono temperature o pressioni sufficienti a sciogliere completamente la loro struttura, si possono formare nuove rocce con composizioni minerali e proprietà fisiche radicalmente diverse. Questo stadio del ritorno al ciclo naturale dei materiali è stato raggiunto, finora, solo con alcuni rifiuti minerali, come i rifiuti di vetro.
Il crescente impatto umano sui cicli naturali dei materiali è un fenomeno sempre più evidente, amplificato dalla crescita industriale, agricola e demografica. L'esempio più noto di tale interferenza riguarda il ciclo del carbonio, il cui equilibrio è alterato dalla combustione di combustibili fossili, dalla deforestazione e da altre pratiche, con un conseguente aumento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. In questo contesto, una delle soluzioni per ridurre l'interferenza nei cicli naturali consiste nell’adozione di strategie di "salvataggio", come la riduzione dei consumi e la dematerializzazione. Un’altra strategia consiste nella creazione di cicli chiusi di materiali all'interno della tecnosfera, anche se tale approccio è ancora agli inizi.
Nel settore edilizio, per esempio, in Germania, ogni anno vengono estratti circa 500 milioni di tonnellate di sabbia, ghiaia, pietra naturale e altre materie prime minerali, con un riciclo di 60-70 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione trasformati in materiali edilizi riciclati. In termini percentuali, la quantità di materie prime naturali sostituite dai materiali riciclati è compresa tra il 10 e il 15%. Sebbene questo risparmio non sia trascurabile, le materie prime primarie continuano a essere necessarie in quantità significative. Per materiali come il vetro, la carta e i metalli, tuttavia, si osservano tassi di riciclo più elevati. Da un lato, questo è giustificato tecnologicamente, poiché i processi di riciclo per questi materiali prevedono la fusione o la sospensione, dissolvendo completamente la struttura originale. Dall'altro lato, per i metalli, i fattori determinanti per il riciclo sono l’alto prezzo e i risparmi energetici derivanti dalla produzione di metallo riciclato anziché da minerale.
Oltre a questi aspetti, è fondamentale considerare l'evoluzione storica del riciclo. Sebbene oggi il riciclo di materiali come metalli, carta e plastica sembri una pratica consolidata, le sue radici affondano nell'era medievale. La raccolta di stracci e la produzione di carta, ad esempio, erano già regolamentate attraverso distretti di raccolta, con l'uso di privilegi ufficiali e divieti di esportazione. Negli anni successivi, però, con l'avanzamento tecnologico, il ciclo dei materiali ha visto alcuni cambiamenti. Ad esempio, dalla fine del XIX secolo, il riciclo degli stracci per la produzione di carta è diminuito, poiché il processo è stato sostituito da tecnologie più efficienti.
Il riciclo, quindi, non è un fenomeno nuovo, ma un continuo adattamento alle necessità tecnologiche, economiche e sociali. Esso riflette la crescente consapevolezza della necessità di preservare le risorse naturali, ridurre l'impatto ambientale e ottimizzare l'uso dei materiali disponibili. Il successo di queste pratiche dipenderà dalla capacità di continuare a sviluppare tecnologie in grado di gestire in modo sempre più efficiente i cicli dei materiali, garantendo nel contempo che la crescita economica non comprometta la stabilità e la sostenibilità del nostro ambiente.
Qual è l'energia specifica necessaria per la frantumazione dei rifiuti di costruzione e demolizione?
Nel processo di riduzione delle dimensioni dei materiali di scarto derivanti dalla costruzione e demolizione, uno degli aspetti fondamentali riguarda l’energia necessaria per ottenere particelle di una certa dimensione. L’energia specifica di frantumazione, indicata come , dipende da diversi fattori, tra cui la durezza del materiale e la dimensione iniziale e finale delle particelle.
Il legame tra l'energia di frantumazione e le dimensioni delle particelle di entrata e di uscita è espresso dalla formula:
dove rappresenta l'energia specifica in kWh/t, è la dimensione delle particelle all’ingresso (80% passante), è la dimensione delle particelle all’uscita, e è una costante che dipende dalla durezza del materiale. La costante assume valori diversi per materiali morbidi (circa 0.3 t kWh ∗ cm1/2) e per materiali duri (circa 1.3 t kWh ∗ cm1/2).
Per esempio, se si applica un lavoro di frantumazione di 1 kWh/t a un materiale duro con una dimensione di particelle di ingresso di 1000 mm, la dimensione delle particelle finali (80% passante) risulterà di circa 66 mm. In caso di utilizzo di un materiale pre-frantumato con dimensione di 150 mm, la dimensione finale diminuisce notevolmente, scendendo a circa 35 mm. Questo dimostra che, al di là della dimensione delle particelle in ingresso, la durezza del materiale ha un impatto significativo sul risultato finale della frantumazione.
Il confronto tra materiali morbidi e duri offre risultati distintivi. Ad esempio, l’utilizzo di materiali con durezza eterogenea durante il processo di frantumazione porta a una distribuzione finale delle particelle che dipende più dalla durezza del materiale che dalla sua dimensione iniziale. In situazioni pratiche, si osserva che un materiale morbido riduce la dimensione delle particelle in modo più efficace rispetto a uno duro se entrambi sono frantumati nella stessa configurazione.
Il processo di frantumazione diventa cruciale anche nella separazione dei materiali compositi, rendendo possibile l'estrazione di frazioni specifiche utili per il riutilizzo, come nel caso di materiale per la costruzione di strade o aggregati per il calcestruzzo. Le principali attrezzature utilizzate per questa operazione sono i frantoi a mascelle e i frantoi a impatto. I frantoi a mascelle, ideati per il trattamento di materiali molto duri, lavorano applicando pressioni elevate, mentre i frantoi a impatto, ideali per materiali di media durezza, applicano energie cinetiche.
I frantoi a mascelle, che rappresentano una tecnica evolutiva del principio della nocciolina, sfruttano una bocca di frantumazione in cui il materiale viene sottoposto a forze ripetute fino a che non raggiunge la dimensione desiderata. Questo tipo di frantumatore è particolarmente adatto per la frantumazione di materiali duri e non soffre di un’usura eccessiva, sebbene possieda limiti quando si tratta di materiali più morbidi. In generale, i frantoi a mascelle sono preferiti nei cicli di frantumazione a una sola fase.
D’altra parte, i frantoi a impatto utilizzano barre di impatto che trasferiscono parte della loro energia cinetica al materiale, frantumandolo. La loro efficienza dipende principalmente dalla velocità angolare del rotore, e sono adatti per materiali più morbidi. Anche se il grado di riduzione della dimensione delle particelle è influenzato dalla geometria dell’apertura di scarico, è soprattutto la velocità di rotazione a determinare l’efficacia del processo.
Le operazioni di frantumazione possono essere eseguite in due fasi: la frantumazione primaria, che di solito è effettuata da un frantoio a mascelle, e la frantumazione secondaria, in cui si impiegano frantoi a impatto per ottenere una maggiore finezza del prodotto. Altri tipi di frantoi, come i frantoi a rullo d’impatto, i frantoi a cono e i granulatori rotanti, sono utilizzati a seconda delle caratteristiche specifiche del materiale e delle necessità del processo.
Per quanto riguarda le dimensioni dei frantoi, la scelta dipende principalmente dalla dimensione del materiale da trattare e dalla capacità desiderata. La larghezza della bocca di alimentazione del frantoio determina la dimensione massima del materiale che può essere trattato senza causare blocchi. In media, per una capacità di circa 200 t/h, le piante di riciclaggio dei rifiuti di costruzione e demolizione richiedono una sezione trasversale della bocca di alimentazione che varia da 0,5 a 1 m², a prescindere dal fatto che il frantoio sia mobile o stazionario.
In conclusione, la frantumazione dei materiali di scarto da costruzione e demolizione non si limita a ridurre le dimensioni delle particelle; è anche un processo fondamentale per separare e valorizzare i vari componenti del materiale, ottenendo frazioni di valore per il riutilizzo. La scelta del frantoio e delle tecniche di frantumazione deve tenere conto della durezza del materiale, delle dimensioni iniziali e finali delle particelle e della capacità produttiva necessaria.
L'importanza della reattività dei materiali riciclati nel calcestruzzo: dal recupero alla durabilità
Il comportamento dei materiali riciclati, come gli aggregati provenienti da calcestruzzo demolito, è influenzato dalla reattività chimica del calcestruzzo indurito che costituisce una parte sostanziale degli aggregati. Questa reattività, che si manifesta con la potenziale formazione di nuovi composti, è determinata da diversi fattori, tra cui la presenza di residui di cemento non idratato, idrossido di calcio, idrati di silicato di calcio e alogenati contenenti solfato. Tali componenti, a loro volta, sono soggetti a reazioni chimiche durante il processo di stoccaggio, con il calcestruzzo riciclato che può manifestare fenomeni di indurimento attraverso la carbonatazione dell’idrossido di calcio.
La reattività degli aggregati riciclati non si limita al solo stoccaggio del materiale: quando gli aggregati vengono utilizzati in strati non legati nelle costruzioni stradali o nel calcestruzzo, le reazioni chimiche possono continuare se l'acqua riesce a penetrare nel materiale. In quest’ultimo caso, la permeabilità del nuovo calcestruzzo gioca un ruolo cruciale, in quanto può permettere che i residui di cemento non idratato, che altrimenti rimarrebbero inattivi, vengano sottoposti a reazioni di idratazione. Tuttavia, gli studi sperimentali confermano che l'idraulicità residua si manifesta principalmente nei calcestruzzi freschi, ad esempio nei lotti difettosi di pietre da pavimentazione o prefabbricati, e non si osserva in modo significativo nei calcestruzzi già induriti, come quelli provenienti da demolizioni.
In effetti, i calcestruzzi riciclati derivanti da strutture demolite non mostrano alcun miglioramento significativo nella resistenza a meno che non vengano trattati immediatamente dopo la produzione, come nel caso di calcestruzzo non completamente indurito. Quando il calcestruzzo viene frantumato e trasformato in polveri fini, la densità di impaccamento può aumentare, risultando in effetti positivi sulla resistenza, ma solo in misura limitata rispetto alla diluizione causata dalla sostituzione del cemento.
Quando l’acqua entra in contatto con gli aggregati riciclati, la carbonatazione è una delle reazioni più comuni. L’idrossido di calcio reagisce con l’anidride carbonica, formando carbonato di calcio, che a sua volta contribuisce a densificare la struttura del materiale, migliorando le proprietà meccaniche. Tuttavia, il processo di carbonatazione non coinvolge uniformemente tutte le frazioni di aggregato: le particelle più grosse di calcestruzzo tendono a non essere completamente carbonatate a causa della formazione di una crosta di carbonato che rallenta il progresso della reazione. Questo fenomeno può essere accelerato in condizioni di alta concentrazione di anidride carbonica, come dimostrato negli esperimenti in cui, esponendo i granuli di calcestruzzo indurito a gas contenente il 20% di CO2, si è osservato un aumento significativo della formazione di calcite in un breve periodo.
Allo stesso tempo, quando gli aggregati di calcestruzzo riciclato sono esposti a un ambiente contenente solfati, ad esempio in presenza di acque solfate, si possono formare composti come l’ettringite e, in alcuni casi, la thaumasite. Questi composti, che si formano a causa delle reazioni chimiche tra gli idrati di aluminate di calcio e i solfati, sono responsabili di un notevole aumento di volume, che può danneggiare il calcestruzzo se non viene gestito correttamente. In particolare, la formazione di ettringite è nota per causare danni alla matrice del calcestruzzo, con espansione volumetrica che può deformare il materiale in modo significativo. Se i solfati sono presenti in forma di gesso o se provengono da terreni o acque sotterranee solfatiche, i danni possono manifestarsi anche durante il periodo di stoccaggio degli aggregati riciclati. Tuttavia, questi danni non sono immediatamente visibili, poiché l'aumento di volume viene in parte assorbito dallo spazio poroso tra le particelle.
Nel caso del calcestruzzo riciclato utilizzato nelle pavimentazioni stradali, ad esempio, l'ingresso di acqua nei corsi inferiori può portare alla formazione di ettringite o thaumasite, con conseguente sollevamento e deformazione del pavimento. Questi fenomeni sono stati osservati più frequentemente dopo periodi di gelo, poiché le basse temperature favoriscono la formazione di questi composti. La presenza di tali danni ha sollevato preoccupazioni circa l’affidabilità a lungo termine dell’utilizzo di aggregati riciclati nelle costruzioni stradali, in particolare in condizioni climatiche fredde.
L'effetto della composizione del calcestruzzo riciclato come materiale composito gioca un ruolo fondamentale nella comprensione delle sue proprietà. Gli aggregati riciclati, che risultano dal frantumamento del calcestruzzo indurito, sono essenzialmente sistemi bicomponenti che combinano aggregati naturali e pasta cementizia indurita. Le proprietà fisiche di questi aggregati dipendono dal rapporto tra la pasta cementizia e gli aggregati naturali, il che influisce direttamente sulla densità assoluta, la porosità e la reattività del materiale. A seconda delle proporzioni tra i due componenti, i calcestruzzi riciclati possono comportarsi in modo simile a miscele di calcestruzzo tradizionale o a composti a base di calcare.
In definitiva, il recupero di aggregati di calcestruzzo presenta sfide uniche legate alla loro reattività chimica e al comportamento del materiale sotto specifiche condizioni ambientali. La comprensione di questi processi chimici e fisici è essenziale per ottimizzare l'uso degli aggregati riciclati e garantire la durabilità delle strutture che li utilizzano. Inoltre, sebbene il riciclo del calcestruzzo offra una risposta sostenibile alla gestione dei rifiuti, il controllo delle reazioni chimiche e la gestione adeguata dell'umidità e dei solfati sono cruciali per prevenire danni a lungo termine nelle costruzioni.
È possibile riciclare il gesso?
La riciclabilità intrinseca del gesso apre nuove prospettive nell’impiego di questo materiale come materia prima secondaria, a condizione che vengano rispettati determinati parametri qualitativi. Tale opportunità sta ricevendo un’attenzione crescente in virtù della progressiva esauribilità delle risorse naturali e dei vincoli ambientali sempre più stringenti imposti dal contesto normativo europeo. Il gesso di sintesi, ottenuto come sottoprodotto dagli impianti di desolforazione dei fumi delle centrali a carbone (FGD), ha finora rappresentato oltre la metà del fabbisogno totale. Tuttavia, con il declino progressivo del carbone in linea con gli obiettivi del Green Deal, la disponibilità di FGD tenderà a ridursi. La necessità di un’economia circolare e la crescente incidenza dei costi di smaltimento in discarica rendono il riciclo del gesso un’alternativa economicamente ed ecologicamente percorribile.
Il processo di riciclo si basa su una sequenza rigorosa di controlli qualitativi e trasformazioni meccaniche. All’arrivo dell’autocarro presso l’impianto di trattamento, il materiale viene ispezionato visivamente. Dopo una prima selezione, il gesso viene sottoposto a frantumazione grossolana tramite frantoi a rulli elicoidali. In questa fase iniziale vengono separati metalli e impurità visibili. Segue una fase di macinazione secondaria selettiva, in cui, sfruttando il diverso comportamento alla frantumazione tra gesso e cartone, si procede alla disgregazione fisica del composto. Il gesso si frantuma con carichi di pressione o urto, mentre il cartone viene separato con sollecitazioni da taglio. L’impiego di frantoi e mulini a rulli consente di generare gli sforzi necessari per tale separazione.
Il materiale frantumato viene vagliato: il gesso, sotto forma di particelle fini (fino a 10 mm), passa attraverso le maglie, mentre i fiocchi di cartone, più grossolani, vengono trattenuti. In alternativa o in aggiunta, si può adottare un separatore a zig-zag per affinare ulteriormente la selezione. Il prodotto finale è costituito per il 90-95% da gesso in polvere e per il 5-10% da fiocchi di cartone.
Il gesso riciclato può essere riutilizzato nella produzione di nuovi pannelli in cartongesso, purché soddisfi precisi requisiti. I parametri fisici includono una granulometria massima di 1 mm, un’umidità inferiore al 5% in massa, l’assenza di impurità visibili e un odore neutro. Dal punto di vista chimico, è necessario mantenere valori controllati di cloruri, carbonio organico totale (TOC), sali solubili (come MgO, Na₂O e K₂O) e pH compreso tra 5 e 9. Rispetto al gesso naturale o al FGD, il gesso riciclato presenta una variabilità maggiore nei parametri, ma l’impiego di una percentuale del 20% nella produzione di nuovi pannelli non compromette le prestazioni finali del prodotto.
Il controllo qualità è essenziale: i rifiuti in ingresso devono essere pre-selezionati e privi di amianto, con documentazione a supporto fornita dal produttore del rifiuto. Dopo la selezione visiva, i materiali vengono suddivisi in lotti di 1000 tonnellate. Da ciascun lotto si preleva un campione di 20 tonnellate, che viene lavorato e analizzato per verificarne la conformità ai parametri stabiliti. Solo se il campione rispetta i limiti previsti, l’intero lotto è ammesso alla produzione. Durante l'intero ciclo produttivo, vengono effettuati ulteriori controlli giornalieri per garantire la coerenza con il campione rappresentativo.
Un’ulteriore possibilità di impiego del gesso riciclato ad alta purezza è la sua utilizzazione come fertilizzante, integrato in compost o in strati di terreno agricolo. Alcune specie vegetali manifestano una crescita migliorata in presenza di fertilizzanti contenenti zolfo. Tuttavia, la fattibilità tecnica e l’efficacia agronomica di questa applicazione richiedono ulteriori approfondimenti scientifici e industriali.
Il downcycling del gesso, ossia l’utilizzo in applicazioni di valore inferiore rispetto al materiale originale, è limitato. L’infiltrazione di ioni solfato nelle acque sotterranee, dovuta alla solubilità del gesso, e la possibile formazione di idrogeno solforato in presenza di materiale organico degradabile, come il cartone, ne limitano il recupero sotto forma di riempimento. In passato, in Germania, si è fatto largo uso del gesso per la profilatura delle discariche di salgemma o per la bonifica di fanghi minerari contenenti uranio, una pratica ora in contrapposizione con i principi del riciclo.
Nel contesto delle macerie da costruzione e demolizione, il gesso rappresenta spesso un contaminante. In particolare, nelle murature, la presenza di intonaci a base di gesso rende problematico l’impiego del materiale risultante per scopi edilizi o ambientali. La separazione dell’intonaco dal supporto murario richiede un primo stadio di disgregazione, seguito da un’ulteriore fase di separazione dei frammenti di gesso. Tuttavia, poiché questi si distribuiscono in modo disomogeneo tra le diverse frazioni granulometriche, la vagliatura risulta inefficace per ottenere una rimozione completa. La fresatura selettiva degli intonaci in fase di demolizione, pur essendo tecnicamente possibile, è stata finora trascurata per la scarsa redditività economica.
L’adozione diffusa di tecnologie per il riciclo del gesso presuppone non solo una filiera industriale ben strutturata, ma anche un’integrazione tra strategie di demolizione selettiva, progettazione orientata alla disassemblabilità, e incentivi normativi per il riutilizzo delle materie seconde. È fondamentale considerare il gesso non come uno scarto inevitabile, ma come una risorsa circolare da gestire con intelligenza tecnica e visione sistemica.
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