Nel mio immaginario di dodicenne, la guerra fredda e l’universo di Star Trek si fondevano in una narrazione coerente, anche se non possedevo ancora gli strumenti analitici per decifrarne i significati più profondi. I Klingon, introdotti come razza antagonista nel 1967, incarnavano una brutalità imperiale che si opponeva alla visione utopica e post-razziale della Federazione. Lungi dall’essere una democrazia liberale, l’Impero Klingon rappresentava il dominio attraverso la forza, un’espansione territoriale motivata da un bisogno quasi biologico di sopraffazione. Gene Roddenberry non fece mistero del fatto che i Klingon fossero una metafora diretta dell’Unione Sovietica: il conflitto ideologico che strutturava la guerra fredda veniva così proiettato nello spazio, dove la minaccia dell’autoritarismo era sempre disponibile a essere riattivata per alimentare il dramma narrativo.

Questa trasposizione cosmica del conflitto bipolare creava una realtà alternativa in cui la Terra, unificata sotto la bandiera della Federazione, appariva come un modello di liberalismo cosmopolita. Nessuno doveva spiegarmi che i Klingon erano i sovietici e la Federazione rappresentava “noi”: la logica narrativa lo suggeriva con una chiarezza archetipica. Per questo, quando la mia insegnante parlava della guerra fredda, tutto mi sembrava già familiare.

Con il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, il mondo sembrava avanzare nella direzione preconizzata da Star Trek. Il passaggio alla democrazia in Europa orientale e la promessa di un “nuovo ordine mondiale” sembravano rendere plausibile quella visione utopica. In parallelo, anche l’universo di Star Trek evolveva: nei primi anni ’90, i Klingon in The Next Generation non erano più i nemici della Federazione, ma alleati ambigui e a tratti subordinati. Il loro sistema economico era crollato, riflettendo l’allegoria del collasso sovietico rappresentato in Star Trek VI, e avevano adottato un codice d’onore che, pur distante dalle norme occidentali, era interpretato come ammirevole e compatibile con la coesistenza pacifica.

Ma l’illusione di un ordine globale stabile fu presto infranta. I conflitti nei Balcani e in Rwanda scossero la fiducia nell’efficacia del potere americano e della diplomazia multilaterale. Le immagini di genocidi e pulizie etniche riportavano la geopolitica a una dimensione brutale, in netto contrasto con le narrazioni progressiste. La mia vocazione iniziale per la carriera diplomatica veniva messa in discussione da un mondo in cui la morale sembrava sempre più ambigua.

Questo disincanto trovava una controparte perfetta in Deep Space Nine, serie più cupa e complessa rispetto ai suoi predecessori. Ambientata su una stazione spaziale ai confini del territorio della Federazione, al crocevia con lo spazio dominato dai Cardassiani e un wormhole che portava a una galassia ignota, la serie rifletteva la complessità etica e politica di un ordine globale unipolare instabile. Le alleanze mutavano, i conflitti interni si intensificavano, e la figura del Maquis—coloni ex-federali trasformati in guerriglieri dopo che i loro mondi erano stati ceduti ai Cardassiani—metteva la Federazione di fronte a dilemmi morali in cui ogni scelta sembrava contenere una contraddizione.

Questa ambivalenza rifletteva le controversie della geopolitica reale: dai massacri in Bosnia alle colonie israeliane in Cisgiordania. La mia visione idealista cedeva il passo a una posizione più riflessiva, e la figura dello studioso, indipendente da un’identità politica ufficiale, diventava per me più seducente di quella del funzionario statale.

Ridurre Star Trek a una semplice riflessione delle tendenze geopolitiche sarebbe riduttivo. La serie non si limitava a rappresentare i conflitti del suo tempo, ma contribuiva attivamente a strutturare una visione del mondo, un immaginario geopolitico interiorizzato da chi, come me, l’aveva vissuta da giovane. In questo senso, Star Trek non è solo derivato dalla realtà politica: ha partecipato alla sua costruzione culturale.

È in questa tensione tra finzione e realtà, tra desiderio utopico e cinismo postmoderno, che si situa il senso più profondo dell’intersezione tra cultura popolare, geopolitica e identità. Comprendere questi legami significa decifrare come narrazioni apparentemente innocue modellano in profondità le nostre percezioni del potere, dell’altro e del possibile.

Nel valutare questa intersezione, è fonda

Come si diffondono e trasformano i discorsi geopolitici nella cultura popolare?

La circolazione dei testi, delle immagini e degli oggetti al di là del luogo originario della loro produzione riveste un ruolo cruciale nella definizione e trasformazione del loro significato. La dinamica con cui la cultura popolare geopolitica si diffonde implica un’analisi approfondita delle tecnologie che ne consentono il movimento, ma anche dei processi sociali, economici e politici che ne modellano il tragitto e gli effetti. Considerare la circolazione significa non soltanto osservare i mezzi attraverso cui un messaggio si propaga, ma anche interrogarsi su come esso venga percepito e modificato a seconda dei contesti in cui viene incontrato.

Un esempio calzante è rappresentato dall’esperienza differente della fruizione di un prodotto culturale, come il film Snakes on a Plane (2006), la cui visione a casa con amici può risultare radicalmente diversa rispetto alla sua visione durante un vero viaggio aereo. Questo fenomeno testimonia come il contesto di ricezione influisca sulla costruzione del senso e sulle implicazioni geopolitiche percepite. L’analisi della circolazione evidenzia anche che non tutti i discorsi si diffondono allo stesso modo, né con uguale forza o impatto, sottolineando la complessità delle reti di diffusione.

Non si può inoltre trascurare l’influenza persistente dello Stato e di attori politici nell’orientare la circolazione delle idee geopolitiche. Come osserva Joanne Szostek, benché la geopolitica popolare aspiri a dimostrare come i discorsi geopolitici escano dall’ambito istituzionale statale, lo Stato continua a esercitare un ruolo centrale, ad esempio tramite finanziamenti che supportano propagande o manipolazioni mediali, come nel caso dei troll finanziati dalla Russia che modellano i dibattiti online.

La circolazione è intimamente legata alle tecnologie che la rendono possibile. Le piattaforme sociali hanno moltiplicato la possibilità di diffusione e circolazione di testi, immagini e narrazioni, ampliando il coinvolgimento sia degli “elites” che dei “nonelites” nella produzione e riproduzione di discorsi geopolitici. La natura stessa delle piattaforme sociali, con le loro caratteristiche tecniche specifiche, le modalità di interazione, e la possibilità di scambi immediati, rende più complesso comprendere chi detiene realmente l’agenzia e il potere nella costruzione di questi discorsi.

L’indagine della circolazione attraverso i social media apre nuove sfide metodologiche. La vastità e la velocità con cui i dati si generano e si modificano richiedono approcci di ricerca innovativi, capaci di raccogliere e analizzare grandi volumi di contenuti, spesso multimodali (

Come il pensiero postcoloniale decostruisce le categorie identitarie e la rappresentazione geopolitica

I teorici postcoloniali hanno progressivamente abbandonato le dicotomie tradizionali come strumenti analitici, ritenendole più funzionali a chi crea le categorie che a chi ne subisce la categorizzazione. Queste binarietà, più che descrivere la realtà, hanno storicamente legittimato il dominio geopolitico: la presunta pigrizia, barbarie e immoralità dei non-Europei sono state utilizzate per giustificare la colonizzazione di territori ricchi di risorse da parte di europei (o loro discendenti) presentati come laboriosi, civilizzati e morali. Perché l’egemonia si radichi, tali strutture di conoscenza devono penetrare le popolazioni colonizzate, impedendo loro di ribellarsi al potere coloniale.

Un secondo effetto del pensiero postcoloniale, evidenziato da Sharp, è il ruolo centrale dell’ambiguità nella comprensione di popoli e luoghi. Ci si trova spesso intrappolati tra due visioni opposte: da un lato l’universalismo moderno che nega la differenza culturale e dall’altro il determinismo culturale che fissa rigidamente le identità entro categorie statiche. Entrambi questi approcci risultano insoddisfacenti: il primo presuppone che ogni persona desidererebbe ciò che desideriamo noi, se solo ne avesse l’occasione; il secondo riduce gli individui a stereotipi immutabili. Perciò il pensiero postcoloniale tende a rifiutare del tutto le etichette.

Un terzo impatto cruciale è il riconoscimento delle identità ibride. L’esempio di Hollywood, con stelle di origini austriache, belghe, cinesi, francesi o giapponesi e con una parte consistente dei profitti proveniente dall’estero, dimostra come la mescolanza di culture superi le tradizionali categorizzazioni geografiche. Le lotte nazionaliste per l’indipendenza postcoloniale, benché mirassero alla fondazione di stati-nazione su modello europeo, spesso replicavano la struttura geopolitica coloniale, rimanendo prigioniere della stessa immaginazione politica europea. Questo fenomeno, definito “mimicry”, ha portato a élite altrettanto corrotte e distaccate.

La prospettiva postcoloniale propone invece la liberazione da questo immaginario geopolitico rigido, abbracciando la fluidità e la complessità delle identità. I cittadini degli stati postcoloniali possono dunque integrare elementi culturali europei senza rinnegare le tradizioni precoloniali, le quali non sono necessariamente superiori solo perché ancestrali, né devono accettare in blocco

Come si costruisce e si mantiene la narrazione della nazione nella cultura contemporanea?

Le tradizioni del pensiero politico e del linguaggio letterario hanno consolidato l’idea della nazione come un concetto storico potente e fondativo nella cultura occidentale. Incontrare la nazione attraverso il testo significa osservare una temporalità culturale e di coscienza sociale che riflette un processo parziale e complesso nella produzione del significato testuale. Questo approccio è prezioso perché permette di focalizzarsi su quegli angoli spesso trascurati, ma fondamentali, della cultura nazionale da cui possono emergere gruppi alternativi di persone e capacità analitiche opposte al discorso dominante.

La narrazione nazionale non si limita alle forme ufficiali di insegnamento, come i manuali scolastici, che vengono continuamente aggiornati e rivisti. Come sottolinea Michael Billig con il concetto di “nazionalismo banale”, la nazionalizzazione è un processo onnipresente, che si apprende e si riaffronta costantemente nella vita quotidiana. Le narrazioni nazionali si manifestano dunque in forme episodiche, quotidiane e diffuse: notiziari, film, programmi televisivi e rassegne di fine anno diventano i veicoli principali attraverso cui si aggiorna e si riflette l’identità collettiva su chi “noi” siamo e chi sono “loro”, cioè coloro che non appartengono alla nazione.

Non esiste una versione unica e definitiva della storia, dell’identità o della narrazione americana; al contrario, coesistono molteplici narrazioni in competizione per l’egemonia. Alcune storie favoriscono certi gruppi a scapito di altri, legittimando politiche e azioni attraverso il discorso pubblico. Il dibattito sulla natura cristiana degli Stati Uniti o la commemorazione del Black History Month sono esempi di come la storia e l’identità nazionali vengano contestate e ridefinite continuamente nel contesto politico contemporaneo.

Le narrazioni emergono come egemoniche o meno attraverso la performatività, ossia l’atto ripetuto che può rinforzare o sfidare le norme sociali. L’identità nazionale si manifesta anche attraverso scelte di consumo, come nel caso del boicottaggio di beni sudafricani durante l’apartheid, che fu una forma diffusa di protesta e affermazione di identità antirazzista. Consumare media come il New York Times o il Wall Street Journal diventa un modo per esprimere e performare una particolare narrazione americana, che rispecchia l’esperienza vissuta del lettore.

La cultura popolare rappresenta quindi un canale essenziale per la produzione e la reiterazione delle narrazioni nazionali, mentre i cittadini le performano attraverso il consumo ripetuto di tali prodotti culturali. Sebbene esistano narrazioni diverse e spesso contrastanti, tutte condividono l’associazione con una specifica nazione, una caratteristica che emerge in modo cruciale nella teoria poststrutturalista della nazione. Le persone si identificano con queste narrazioni multiple, pur non concordando su quale sia “la” narrazione corretta, e si percepiscono comunque come membri della stessa nazione.

Un esempio emblematico di narrazione nazionale nella cultura popolare americana è il supereroe Captain America, creato nel 1940 da Joe Simon e Jack Kirby. Egli rappresenta un’America idealizzata e moralmente netta, in cui la libertà e la pace si contrappongono all’aggressività e al tradimento incarnati dalla Germania nazista. Captain America nasce in un contesto storico e politico ben definito, in cui la cultura popolare serve a legittimare un’identità nazionale patriottica e combattiva, fungendo da archiviazione narrativa e interpretativa dei mutamenti della società americana. Il suo ruolo non è solo simbolico, ma performativo, nel senso che rafforza e diffonde una particolare idea di nazione attraverso storie seriali che si adattano e rispecchiano i cambiamenti sociali e politici del paese.

Questa narrazione del supereroe esemplifica come le rappresentazioni culturali siano portatrici di valori politici e morali e di come queste storie si intreccino con le pratiche quotidiane di costruz

Come le geografie culturali influenzano l’interpretazione dei testi popolari?

David Livingstone ha teorizzato l’interpretazione testuale come un processo che avviene attraverso due tipi di geografie: le cartografie della ricezione testuale e le geografie culturali della lettura. Le prime si riferiscono alle comunità immaginate, gruppi di persone che condividono connessioni linguistiche e culturali, definendosi come un’unità collettiva anche a grandi distanze geografiche. Questi legami influenzano profondamente il modo in cui un testo culturale viene recepito; ad esempio, un pubblico pakistano darà probabilmente un’interpretazione diversa di un film come Zero Dark Thirty rispetto a un pubblico americano, poiché le esperienze e le narrazioni storiche vissute dai due gruppi sono differenti.

Le geografie culturali della lettura rappresentano invece le reti sociali complesse e multiple in cui ogni individuo è immerso. Queste reti riflettono identità sociali, culturali e personali che forniscono le lenti interpretative attraverso cui il testo viene decodificato. Ogni consumatore di cultura popolare partecipa attivamente alla costruzione del significato, in contrasto con la visione passiva che un tempo si aveva del pubblico.

Prendiamo ad esempio il franchise degli X-Men, che illustra in modo paradigmatico come un’opera culturale possa essere letta in modi molteplici e spesso conflittuali. La narrazione dei mutanti perseguitati e divisi tra una strategia di confronto (Magneto) e una di accoglienza (Professor X) è stata interpretata come allegoria delle relazioni razziali americane, con riferimenti a figure come Martin Luther King Jr. e Malcolm X. Il retroscena di Magneto come sopravvissuto all’Olocausto amplifica la dimensione di conflitto etnico, ma altre letture hanno visto la storia anche in termini di identità sessuale, specialmente a partire dal film X2 dove la “uscita dal guardaroba” di Bobby Drake (Iceman) risuona con l’esperienza degli spettatori omosessuali. Le successive trame, che includono il dibattito sulla natura genetica dell’omosessualità e i paralleli con la discriminazione, mostrano come il testo venga continuamente ri-interpretato alla luce di questioni sociopolitiche attuali.

Il riconoscimento di questa complessità ha costretto gli studiosi a rivedere il ruolo del pubblico nelle analisi culturali, rifiutando la marginalizzazione passiva delle audience e riconoscendo invece la loro agenzia interpretativa. Tuttavia, permane una tensione metodologica nel campo della ricerca culturale: come studiare efficacemente queste pratiche di consumo culturale nella vita quotidiana, soprattutto considerando la relazione dialettica tra significati prodotti dai creatori e quelli generati dai consumatori? Come integrare l’esperienza affettiva nel processo di fruizione culturale e comprendere il mutamento che essa provoca nel fruitore?

Le prime ricerche si concentrarono sulle subculture, gruppi che, all’interno di una cultura dominante, si distinguono per modi di vivere e significati che spesso resistono o si oppongono alle norme prevalenti. Nate nel contesto della contestazione giovanile degli anni ’70 in Gran Bretagna, le subculture si sono rivelate esempi esemplari di come le merci culturali vengano riappropriate e riassemblate in forme di opposizione simbolica, un processo chiamato bricolage. Dai Teddy Boys con i loro giacchetti in stile Edwardiano ai punk con giacche di plastica e spille da balia, questi gruppi usano codici estetici e comportamentali per negoziare la loro identità e per contestare il potere.

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