Ogni pubblico ufficiale tende a ritenere che la propria elezione sia nell’interesse pubblico, e quando un presidente agisce in modo da favorire la propria rielezione, egli può sostenere che ciò rientri nell’interesse generale, escludendo così la possibilità che tali azioni costituiscano un illecito politico passibile di impeachment. La concezione di Theodore Roosevelt del presidente come “steward of the people” implica un’idea di presidenza meno vincolata dai limiti istituzionali rispetto ad altri organi politici. Anche quando i poteri presidenziali sono soggetti al controllo degli altri rami del governo, in particolare del Congresso, il presidente riesce spesso a conseguire i propri obiettivi grazie alla lentezza dei processi decisionali o all’incapacità del Congresso di coagulare una volontà comune forte e coerente.

Il Congresso, pur essendo il principale attore nella definizione di sanzioni come l’impeachment, rappresenta anche un terreno di opportunità per la presidenza. Nella fase post-riforma e post-Watergate, il Congresso degli anni ’70 e ’80 si trovava spesso limitato nelle sue risposte a scandali presidenziali da un assetto del potere diffuso e frammentato. L’accentuarsi della polarizzazione ideologica e partitica ha favorito l’emergere di quella che Sinclair definisce “legislazione non ortodossa”, una serie di procedure parlamentari che rispondono alla divisione e al conflitto tra maggioranza e opposizione. Kernell evidenzia come la relazione tra Presidenza e Congresso sia mutata profondamente, passando da un pluralismo istituzionalizzato a un pluralismo individualizzato, costringendo i presidenti a “andare in pubblico” per ottenere consenso, in un contesto dove il Congresso non si coalizza più facilmente con la presidenza. In questo scenario, il Congresso viene frequentemente dipinto dai presidenti come un antagonista, un ostacolo da superare tramite il coinvolgimento diretto degli elettori.

La polarizzazione estrema della politica americana si riflette anche nel funzionamento del Congresso contemporaneo, come dimostrato dall’impeachment di Donald Trump. L’azione della Camera, controllata dai Democratici, e l’assoluta linea di partito in Senato, dominato dai Repubblicani, hanno portato a un esito prevedibile, dove il processo di rimozione è fallito non per mancanza di prove, ma per la consolidata divisione partitica. Questa polarizzazione rende l’impeachment un evento eminentemente politico e non giuridico, limitando l’efficacia delle sanzioni previste.

Il potere giudiziario rappresenta un altro limite al presidente, ma anche qui la presidenza gode di vantaggi peculiari. La partecipazione continua dell’esecutivo ai procedimenti giudiziari e il rapporto sviluppato con la magistratura federale, in particolare attraverso il ruolo del Solicitor General, tendono a favorire un certo deferenzialismo nei confronti della presidenza. Sebbene i presidenti non vincano sempre nelle aule giudiziarie, come mostrano i ripetuti fallimenti di Trump nel tentativo di imporre un bando ai viaggi da paesi musulmani, la presenza costante e ripetuta nel sistema giuridico conferisce un vantaggio strategico.

Il presidente influenza anche la magistratura nominando giudici con visioni favorevoli all’ampliamento del potere esecutivo, un processo che Trump e il leader della maggioranza al Senato McConnell hanno sfruttato con successo. La nomina di giudici con un’interpretazione estensiva della presidenza modifica l’ambiente legale, rendendolo più accogliente nei confronti di azioni presidenziali contestate, specialmente in situazioni di scandalo. Questo crea un contesto in cui la presidenza può spingere i confini della propria autorità con minori timori di un intervento giudiziario sfavorevole.

Il potere presidenziale, pur non essendo illimitato come postulano alcune versioni estreme della teoria dell’esecutivo unitario, rimane più flessibile e plastico rispetto a quello degli altri rami del governo. I presidenti tendono a esplorare continuamente i confini del proprio potere, incarnando l’idea del “leone magnifico” capace di agire ampiamente purché non superi certi limiti impliciti. Gli scandali presidenziali rappresentano veri e propri test per la definizione e il rafforzamento di questi confini costituzionali, generando crisi e incertezze riguardo al rispetto delle norme istituzionali.

Le sfide si intensificano quando un presidente si rifiuta di collaborare con ordini giudiziari o di rispettare le decisioni legislative, ponendo questioni mai pienamente risolte dalla Costituzione: cosa accade se un presidente rifiuta di consegnare documenti richiesti? O se, una volta messo sotto impeachment e condannato dal Senato, rifiuta di lasciare l’incarico? Tali scenari spingono il sistema politico a confrontarsi con limiti non solo legali, ma anche politici e costituzionali, in un equilibrio fragile e continuamente ridefinito.

È essenziale comprendere che l’efficacia dei controlli e dei bilanciamenti tra rami del governo dipende non solo da norme scritte, ma anche da dinamiche politiche, culturali e istituzionali profonde. La polarizzazione partitica, il ruolo dell’opinione pubblica, la strategia comunicativa dei presidenti e la composizione ideologica della magistratura sono tutti fattori che contribuiscono a modellare il reale esercizio del potere presidenziale. La comprensione di questi elementi permette di cogliere la complessità del sistema politico americano e le ragioni per cui i presidenti spesso riescono a navigare con successo anche attraverso scandali gravi, limitando l’impatto delle sanzioni previste.

Come Nixon ha cercato di manipolare lo scandalo Watergate attraverso la controffensiva politica?

Durante l’udienza di conferma per il successore di Mitchell, fu mentito riguardo al coinvolgimento della Casa Bianca nella risoluzione con ITT. John Dean osservò che una reazione eccessiva allo scandalo ITT avrebbe indebolito la risposta allo scandalo Watergate, poiché l’opinione pubblica negativa verso i tentativi della Casa Bianca di controllare il danno avrebbe limitato la capacità del team di Nixon di reagire efficacemente al furto di documenti al Watergate. Sebbene vi siano dibattiti sull’effettivo coinvolgimento personale di Nixon nell’organizzazione delle irruzioni – in particolare nell’ufficio dello psichiatra di Daniel Ellsberg e nel successivo tentativo maldestro alla sede del Comitato Nazionale Democratico – è indiscutibile il suo ruolo nel tentativo di insabbiare lo scandalo. Il sistema di registrazione segreto installato nella Casa Bianca catturò la sua voce durante momenti chiave della copertura, confermando la sua partecipazione attiva e diretta.

Nel 2003, Jeb Magruder, consigliere della Casa Bianca, rivelò di aver sentito Nixon approvare l’irruzione, confermando che John Mitchell, ex Procuratore Generale e responsabile della campagna di rielezione, si era assicurato che Nixon volesse procedere con l’operazione. La reazione pubblica al legame tra i ladri e la Casa Bianca fu spesso descritta come un muro di silenzio da parte di Nixon, una strategia usata fin dall’estate 1972 fino alle sue dimissioni nel 1974. Tuttavia, la sua risposta iniziale fu più orientata alla disinformazione che a un semplice rifiuto di collaborare. Nei primi giorni della copertura, Nixon discusse con il capo dello staff Bob Haldeman su come creare uno scandalo alternativo che potesse minimizzare l’importanza del Watergate.

Nixon voleva costruire una narrazione secondo cui il bugging fosse una pratica comune e non così grave, dato che lui credeva che la sua stessa campagna fosse stata spiata dai Democratici, o che scandali maggiori fossero rappresentati dalle fughe di notizie, come quelle dei Pentagon Papers o le indagini di giornalisti come Jack Anderson. Intendeva lanciare un contro-scandalo basato su accuse di spionaggio e uso illegale di fondi elettorali da parte dei Democratici, supportato da un discorso che accusava i "libertari" all’interno del Partito Repubblicano di mostrare indifferenza verso lo stato di diritto.

Il 19 giugno 1972, poco dopo l’arresto dei ladri, Nixon ordinò al suo consigliere speciale Chuck Colson di preparare una controffensiva, pronta a contrastare le accuse più gravi rivolte a lui. Come in altre occasioni, la sua prima reazione fu di attaccare chiunque minacciasse il suo potere, utilizzando la presidenza come strumento per manipolare i media, il Congresso e l’opinione pubblica. Solo in alcuni casi, come nello scandalo Moorer-Radford, Nixon rallentò per valutare le possibili reazioni pubbliche e la posizione di attori istituzionali e giornalistici.

Nixon sperava che il lancio di un attacco contro i Democratici avrebbe distratto l’opinione pubblica da Watergate. Nel settembre 1972, egli si mostrava soddisfatto del fatto che il tentativo di insabbiare stesse funzionando, ma continuava a cercare nuove strategie. Fra queste vi fu l’idea di rivelare un presunto bugging della sua campagna del 1968 ordinato da Lyndon Johnson, una tattica di "whataboutism" che mira a confondere il pubblico evidenziando presunte trasgressioni dell’avversario. Tuttavia, il rischio di danneggiare i rapporti con l’FBI, di cui Nixon aveva bisogno per risolvere il Watergate, e la possibile controversia di attaccare un ex presidente in vita, spinsero Nixon ad abbandonare questo piano.

In sintesi, la strategia di Nixon fu di reagire allo scandalo Watergate non solo con la negazione e la manipolazione, ma anche cercando di rovesciare l’attenzione tramite un contro-scandalo politico che avrebbe dovuto indebolire i Democratici e salvare la sua immagine pubblica e politica.

È fondamentale comprendere come l’uso della presidenza per orchestrare strategie di distrazione e disinformazione sia un esempio estremo del potere che un capo dello Stato può esercitare sulle istituzioni democratiche, sulla giustizia e sui media. La manipolazione delle percezioni pubbliche e l’uso di tattiche come il “whataboutism” illustrano come la realtà politica possa essere plasmata non solo dai fatti, ma anche da narrazioni costruite ad arte per sviare l’attenzione e mantenere il controllo. Questo caso invita a riflettere sull’importanza della trasparenza e della responsabilità nella politica, così come sui pericoli insiti nella concentrazione di potere senza adeguati meccanismi di controllo.

Perché Nixon scelse l'insabbiamento invece dell'attacco pubblico?

Le registrazioni e le memorie connesse allo scandalo Watergate rivelano una progressiva trasformazione della strategia presidenziale: da un tentativo iniziale di deviare l'attenzione mediante attacchi di immagine verso i Democratici, Nixon e i suoi consiglieri si ritrovarono costretti a privilegiare una postura difensiva fondata sullo stonewalling. Fattori precedenti — l'esposizione degli uomini chiave coinvolti nello scandalo ITT, la presenza di figure come Chuck Colson e l'esistenza stessa delle «Plumbers» — erodevano le risorse personali e politiche necessarie per una campagna di controffensiva rapida e credibile. L'opzione pubblica di un contrattacco mirato avrebbe richiesto tempo, coordinamento e una solidità difensiva che la Casa Bianca non possedeva più senza esporre ulteriormente se stessa a indagini e azioni legali.

La complessità intrinseca dello scandalo funzionò come risorsa strategica: produrre confusione era, in sé, un mezzo per rallentare la capacità di inchiesta del pubblico e della stampa. Diffondere inesattezze, enfatizzare la «bizzarria» dell'episodio e suggerire la possibile autonomia di attori «rogue» permetteva di alimentare un quadro narrativo nel quale il fatto appariva meno riconducibile alla gerarchia direttiva. Le conversazioni intercettate mostrano chiaramente come questa azione deliberata di smarrimento fosse concepita non solo come tattica di breve periodo, ma come meccanismo difensivo atto a contenere i danni politici fino al voto di novembre