Negli anni '20, le società non bancarie avevano trovato un metodo per raccogliere fondi per prestare nel mercato del call-money: l'emissione di azioni. Questa scelta aveva una logica chiara, poiché la società pagava un dividendo del 3-4% sulle azioni emesse, ma guadagnava l'8% o più prestando quei soldi nel mercato. Tali prestiti, nel loro complesso, erano garantiti dalle azioni quotate in borsa che i compratori di margine acquistavano in gran numero. Quando un cliente comprava azioni a margine, ossia prendendo in prestito denaro, il broker tratteneva le azioni come garanzia. L'idea di base era che, nel caso in cui il valore delle azioni fosse sceso, il broker potesse sempre vendere le azioni per coprire il prestito.

Tuttavia, prima che il broker vendesse le azioni in garanzia, un "margin call" veniva comunicato all'investitore, informandolo della necessità di depositare contante per riportare il margine sulle azioni ora svalutate al livello iniziale. Se il cliente non rispondeva prontamente, le azioni venivano vendute. I margini variavano a seconda dell'investitore, delle politiche aziendali e della relazione con il cliente. In generale, i margini oscillavano tra il 10% per i clienti migliori e il 25% per quelli meno affidabili. Rispetto agli standard odierni, questi livelli erano estremamente bassi, e in retrospettiva, possiamo dire che i margini degli anni '20 erano troppo bassi.

Nel decennio che precedette il crollo del 1929, si stima che circa 1,3 milioni di americani, circa l'1% della popolazione dell'epoca, fossero diventati investitori azionari. Di questi, circa 600.000 avevano conti a margine attivi. Alcuni individui possedevano più conti con vari broker, ma comunque il rapporto di 2 a 1 tra conti a margine e investitori è straordinario.

Nel frattempo, i prestiti di cassa delle società di brokeraggio aumentarono quasi del doppio, passando da 3 a 6 miliardi di dollari tra il 1928 e il 1929, secondo la Federal Reserve. E questo dato probabilmente riflette solo una frazione dei prestiti totali, in quanto includeva principalmente il credito concesso dalle banche nazionali alle imprese. Il vero ammontare dei prestiti dei broker nel 1929 era probabilmente vicino ai 16 miliardi di dollari, che corrispondeva a circa un quinto del valore totale del mercato azionario.

I prestiti a margine sembrano abbastanza etici se paragonati ad alcune delle attività più oscure che gonfiavano i prezzi delle azioni in quel periodo. Tra le più notevoli c'erano i gruppi di investitori che formavano "pool" di azioni segreti, finalizzati a manipolare il prezzo di una singola azione. Questi pool includevano spesso persone legate alla società di cui si stava manipolando il titolo o anche dirigenti aziendali, banchieri, finanziatori e promotori azionari. Questi gruppi univano

Perché molte aziende dotcom hanno fallito nonostante il loro enorme potenziale di crescita?

Con l’espansione di internet, si è presto compreso che gli asset immateriali delle aziende potevano generare una crescita straordinaria. L’aumento degli utenti e l’accesso sempre più diffuso al web portarono a una crescita esponenziale del numero di clienti per molte piattaforme. Alcuni siti divennero dominanti, non solo perché offrivano servizi migliori, più veloci o più economici, ma spesso semplicemente perché furono i primi a proporre un prodotto o servizio nuovo. Questa posizione di “primo arrivato” instaurava un’abitudine nei consumatori, che continuavano a preferire quei siti anche dopo l’ingresso di concorrenti nel mercato. Il modello dell’economia digitale iniziale sembrava dunque basarsi su mercati “winner-takes-all”, dove il leader assorbiva circa l’80% delle transazioni.

Un precedente storico che rinforzava questa convinzione era la bolla delle azioni legate ai personal computer negli anni ’80, quando molte aziende producevano cloni dell’IBM PC e, tra queste, pochi titoli come Dell garantivano guadagni enormi. La lezione appresa fu quella di investire in molte startup per assicurarsi di possedere almeno un “vincitore”. Questa strategia alimentò l’entusiasmo per l’acquisto di azioni anche di dotcom apparentemente insensate.

Gli investitori si concentrarono soprattutto sul potenziale di crescita, interpretando la valutazione delle azioni secondo il modello del dividend discount, che lega il prezzo attuale (P) ai dividendi futuri attualizzati. In formula, P = D/(r – g), dove D è il dividendo atteso, r il tasso di sconto e g il tasso di crescita dei dividendi. Un tasso di crescita elevato riduce il denominatore e aumenta il prezzo del titolo. Le aziende come Amazon, proponendo servizi nuovi e più convenienti, sembravano giustificare prezzi elevati grazie a prospettive di crescita straordinarie.

Tuttavia, questa attenzione esclusiva alla crescita oscurava due variabili fondamentali del modello: i dividendi e il tasso di sconto. Per il modello fosse valido, l’azienda doveva avere profitti da distribuire come dividendi, ma molte dotcom persero denaro a ogni vendita, investendo pesantemente in prezzi bassi e pubblicità. Altre, soprattutto portali e comunità online, non avevano nemmeno un modello di ricavo definito, puntando a contenuti gratuiti e affidandosi alla pubblicità, la cui efficacia nel generare ricavi era limitata.

Molti difensori delle dotcom sostenevano che si trattava di un periodo di apprendimento e che, in futuro, solo le aziende solide sarebbero sopravvissute e diventate redditizie, giustificando così di ignorare perdite e profitti per almeno un decennio. Il valore attuale delle aziende veniva dunque calcolato scontando profitti futuri molto lontani, ma questa pratica era altamente speculativa.

Anche il tasso di sconto, riflesso del rischio, veniva spesso sottovalutato o ritenuto inferiore per le aziende tecnologiche, ipotizzando che l’innovazione riducesse il rischio e quindi il rendimento richiesto. In realtà, gli asset immateriali delle dotcom erano estremamente fragili e volatili, come dimostrò il caso Netscape: una volta che Microsoft lanciò un browser competitivo, il valore di Netscape crollò rapidamente. Gli asset intangibili, a differenza di quelli materiali come fabbriche o macchinari, potevano perdere valo

Qual è il rischio nascosto nella funzione monetaria delle criptovalute?

La moneta svolge tre funzioni fondamentali: mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto. Sebbene la maggior parte dell’attenzione si concentri sulle prime due, è la terza funzione, l’unità di conto, quella che può generare i rischi finanziari più gravi. L’unità di conto non si limita a misurare il valore delle attività e delle passività; essa consente la creazione di debiti e prestiti. Nel momento in cui una criptovaluta viene accettata come mezzo di pagamento o riserva di valore, diventa inevitabile che venga utilizzata anche per operazioni di credito, cioè per prestiti e mutui.

Questa dinamica apre la porta a una crescita incontrollata del credito: chi emette criptovalute può creare nuove unità di moneta praticamente a costo zero, e prestare senza limiti. La crescita del credito, come la storia economica insegna, stimola la domanda aggregata e l’attività economica, ma quando avviene senza adeguati controlli può condurre a bolle speculative e crisi finanziarie di vasta portata. Nei sistemi bancari tradizionali, le autorità regolatorie e le banche centrali possono tentare di moderare l’espansione del credito, impedendo che diventi eccessiva e rischiosa. Tuttavia, in un sistema di criptovalute totalmente privato e indipendente, l’unico freno è l’autocontrollo degli stessi prestatori, il quale è spesso assente poiché i profitti derivanti dall’espansione del credito sono immediati e consistenti, mentre i rischi si manifestano solo in seguito.

Pertanto, l’adozione delle criptovalute potrebbe innescare cicli di boom e bust del credito ancora più intensi rispetto al passato, aggravati dal fatto che molte criptovalute operano al di fuori delle tradizionali regolamentazioni governative. Questa prospettiva rappresenta una minaccia reale e preoccupante per la stabilità finanziaria globale.

L’innovazione tecnologica, in sé, non è causa di disastri finanziari, ma le criptovalute e gli altri prodotti fintech offrono nuovi strumenti per perpetuare comportamenti pericolosi che da sempre sono all’origine di crisi: speculazione esasperata, indebita assunzione di rischi e persino frodi. La natura "perfetta" delle criptovalute come asset speculativi le rende particolarmente vulnerabili a queste dinamiche, alimentando la loro stessa instabilità.

Comprendere il meccanismo sottostante è essenziale: la capacità di un’emittente di criptovaluta di generare credito senza limiti reali, senza una supervisione esterna e senza riserve tangibili a sostegno, rende inevitabile l’accumulo di rischi sistemici. Non si tratta solo di una nuova tecnologia, ma di un modello monetario che, se non opportunamente regolato, potrebbe riproporre in modo amplificato le crisi finanziarie del passato.

La storia delle frodi finanziarie e delle crisi è densa di esempi in cui la fiducia ingenua e la ricerca del guadagno facile hanno condotto a crolli disastrosi. Analogamente, le criptovalute, pur essendo strumenti innovativi, possono alimentare meccanismi pericolosi di espansione del credito e di speculazione incontrollata, con effetti potenzialmente devastanti.

È importante inoltre riconoscere che il successo e la diffusione delle criptovalute non dipendono solo dalle loro caratteristiche tecnologiche, ma anche dalla psicologia degli investitori e dalla struttura normativa che le circonda. In assenza di un quadro regolatorio efficace, l’auto-regolazione degli operatori si rivela spesso insufficiente a prevenire eccessi e comportamenti rischiosi.

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