Nel silenzio che seguì le parole di Gerald, l'atmosfera a bordo della Polar Lion cambiò radicalmente. La sua voce, forte e tagliente, non era più quella di un semplice comandante della marina. Era quella di un uomo che aveva preso una decisione: abbandonare la sua vita di subordinazione e costruire un nuovo ordine, indipendente, una realtà in cui la lealtà al governo e alla nazione non significava più nulla. Quel giorno, l'idea di "affari" divenne il centro di tutto, ma non come il mondo lo conosceva. Un nuovo modello di potere stava prendendo forma, una struttura che ruotava attorno alla capacità di esercitare il controllo totale, non solo attraverso la forza fisica, ma anche con la manipolazione psicologica e l'indifferenza verso le sofferenze altrui.

Gerald era un uomo di principi concreti, ma questi principi si fondavano sulla sopraffazione. Mentre i suoi uomini lo guardavano, confusi e affascinati, lui li esortava a riconoscere la propria posizione. Non erano solo soldati, non erano solo difensori di una nazione: erano il cuore pulsante del sistema, il vero motore che alimentava il potere, eppure venivano ricompensati con briciole. La denuncia di Gerald era precisa e dolorosa. Per anni avevano servito un sistema che li sfruttava, che li faceva sentire essenziali ma li abbandonava nei momenti di bisogno. Le storie come quella di Tom Kelly, che non riusciva nemmeno a pagare le cure per sua figlia malata, erano il simbolo di una disuguaglianza insopportabile. In un mondo che dipendeva da loro per la sicurezza e la protezione, si sentivano traditi.

Ma Gerald non si limitò a denunciare: propose una soluzione radicale. Il potere, il denaro, la libertà. Abbandonare il sistema navale e formare una propria organizzazione. Un mondo dove le regole venivano scritte da loro stessi, dove il denaro non era più un limite, dove la vita non sarebbe stata più una sequenza di sacrifici e rinunce. L’immagine che dipingeva era quella di un’esistenza perfetta, dove tutto era a portata di mano: whisky, donne, divertimento. Una realtà a cui pochi avrebbero potuto resistere. E, naturalmente, l’impossibile sembrava non esserlo affatto. L’idea di minacciare con le armi nucleari, di ottenere ciò che volevano con la forza, non era tanto una fantasia quanto una strategia concreta agli occhi di Gerald. Le parole che usava erano semplici ma efficaci: “Otterremo ciò che ci spetta”.

Eppure, nel suo cuore, mentre l’entusiasmo cresceva tra i suoi uomini, Gerald non poteva fare a meno di riflettere. Quale sarebbe stato il prezzo della sua vittoria? Sarebbe stato un eroe in un mondo distrutto, un superstite tra le rovine, o avrebbe semplicemente assistito all’auto-distruzione del suo stesso spirito, un sovrano senza terra su cui governare? La sua visione si scontrava con una realtà più profonda, che lui non aveva ancora completamente esplorato. Se la guerra nucleare fosse arrivata, non avrebbe portato con sé la gloria che cercava. Gli uomini che erano stati sotto il suo comando non avrebbero celebrato la sua vittoria, ma lo avrebbero odiato. L’eroismo in un mondo devastato non avrebbe avuto valore.

Gerald si trovava quindi di fronte a una delle scelte più difficili: godere del potere che aveva appena acquisito, godersi il momento presente, oppure affrontare la possibilità che questo potere non sarebbe stato sufficiente per dargli quella soddisfazione duratura che tanto desiderava. Il comando assoluto della Polar Lion, la sua indipendenza da ogni autorità superiore, gli dava un senso di controllo totale. Ma dentro di sé, un dubbio si insinuava lentamente: il potere che stava acquisendo era realmente ciò che desiderava, o era solo un'illusione di libertà che lo avrebbe intrappolato in un altro ciclo di servitù?

Per Gerald, il dilemma era chiaro, anche se non verbalizzato: voleva essere in cima alla piramide. Non più un ingranaggio di un sistema più grande, ma il sistema stesso. Il mondo della marina, con le sue regole e i suoi doveri, non era per lui. Le promesse di una vita migliore, di una realtà senza limiti, sembravano finalmente a portata di mano. Ma più si avvicinava al suo obiettivo, più la domanda si faceva pressante: cosa sarebbe successo dopo? Sarebbe stato capace di godere del suo trionfo in un mondo che aveva distrutto tutto ciò che amava?

L’esercizio del potere, come Gerald stava rapidamente scoprendo, non è mai lineare. Non si tratta solo di fare ciò che si vuole, ma di gestire le conseguenze di ogni decisione. E anche quando sembra che non ci siano alternative, la solitudine del comando è una compagnia che porta con sé il peso delle scelte fatte. L’indipendenza che desiderava non gli avrebbe mai dato la pace che cercava. Più si allontanava dal sistema, più si accorgeva che la vera libertà non era un concetto che poteva comprare con il denaro o con la forza. La vera libertà veniva da un’azione consapevole, dalla responsabilità verso gli altri, dalla capacità di riconoscere la propria umanità in un mondo che sembrava averla persa.

La fragilità dei miti antichi di fronte alle crisi moderne: Platone, il Leone Polare e il dilemma della gentilezza

Nell’aula 125 dell’università, il professor Applebaum, invece di seguire il programma previsto, esponeva con fervore il mito del Leone Polare come chiave di lettura dell’eredità greca. Interpretando Platone e il suo ideale dei “guardiani” — figure addestrate a proteggere la polis con fermezza e giustizia — il professore cercava di dimostrare la validità eterna della saggezza platonica. Il parallelismo che proponeva era audace: la “rivolta del Leone” come simbolo delle pulsioni distruttive della società contemporanea.

Eppure, nella classe, il giovane Dick Nelson, mente indipendente e acuta, contestava. «I soldati devono essere gentili non solo con i propri concittadini ma anche con gli estranei», osservava. «Se lasciamo che l’istinto prevalga sulla ragione, rischiamo la guerra atomica e la fine del mondo». Le sue parole incrinavano la solidità delle generalizzazioni platoniche che Applebaum aveva appena tracciato. Forse, rifletteva il professore, anche i cani della polis dovevano essere addestrati a non attaccare estranei se non su comando, così come i soldati odierni dovrebbero disciplinare il proprio istinto.

Questa discussione lasciava un’eco profonda nell’animo di Ann Andersen, che, uscendo dal campus, non smetteva di riflettere sul mito antico e sul suo riflesso nel presente. L’amica Joan la liquidava con scetticismo: «Non esagerare, Ann. Quattordici ragazzi ad Atene era una tragedia, ma qualche ragazza in un Paese come l’America non conta davvero». Ann reagiva: «Non è questione di numeri. C’è un principio in gioco». La differenza tra Ann e Joan era la stessa che separava chi vede nei miti un avvertimento e chi li considera un ornamento letterario.

Ma quel giorno il mito si incarnava con violenza nella realtà. La voce alla radio interrompeva la musica e annunciava l’ultimatum del Leone Polare: venti studentesse di Santa Angelica College, tra i diciotto e i ventidue anni, con misure precise e bellezza conforme a un canone imposto. Tra loro, Ann Andersen, figlia di Mary Louise Andersen, nota per aver raccontato in una rivista popolare i ricordi giovanili di Gerald Brown, oggi leader del Leone Polare. Dietro la minaccia non vi era più un’astrazione mitica ma la promessa di distruzione nucleare di una città intera.

Ann, travolta dall’annuncio, riconosceva la crudele coincidenza: «Il mito si è avverato», ripeteva tra sé. Non c’era via d’uscita, nemmeno il suicidio poteva salvarla. Nessun Teseo sarebbe arrivato. Dick, accanto a lei, le sussurrava: «Non ti lascerò andare». Ma entrambi sapevano che il rifiuto avrebbe significato la catastrofe per tutti.

La madre di Ann la accoglieva in lacrime. Cercava di consolarla, prometteva che il governo non avrebbe permesso un simile scempio. Ma anche lei non credeva davvero alle proprie parole. Con disperata speranza, pensava di interrompere le sue confessioni pubblicate su Gerald Brown, illudendosi che questo potesse placare l’ira del Leone. Era il riflesso moderno del sacrificio antico: una città che offre vittime per salvarsi dalla distruzione, un potere che impone bellezza e sottomissione come prezzo per la sopravvivenza.

Questa narrazione mostra con chiarezza l’erosione del confine tra mito e realtà. Platone e il suo ideale di guardiani ci ricordano che il potere senza virtù è una forza cieca; Dick ci ammonisce che la gentilezza deve estendersi oltre i confini della comunità; Ann incarna la vittima designata che, pur consapevole del principio, è intrappolata in un sistema in cui la violenza è spettacolo e mercato.

È importante che il lettore comprenda come la combinazione di antichi paradigmi morali e nuove forme di potere mediatico e tecnologico generi un universo etico instabile, in cui il sacrificio delle minoranze, la standardizzazione dei corpi e la manipolazione della paura diventano strumenti di controllo. È essenziale vedere, dietro l’apparente favola, la denuncia di una società che ha sostituito il mito con la pubblicità e la giustizia con la statistica, lasciando intatta la necessità di un “guardiano” non più armato di spada, ma di coscienza.