Nel corso della storia del giornalismo, la fotografia è stata presentata come una verità assoluta, una prova inconfutabile della realtà. Tuttavia, come dimostrano numerosi esempi, questa presunta imparzialità del mezzo fotografico è sempre stata messa in discussione. Le foto, come i racconti scritti, sono soggette a manipolazioni e interpretazioni, e la loro capacità di "dire la verità" è più sfumata di quanto sembri.

W.T. Stead, un giornalista britannico del XIX secolo, è stato un esempio emblematico di come le motivazioni ideologiche possano influenzare il lavoro giornalistico. Nonostante fosse un fervente sostenitore della purezza morale e un attivista contro la prostituzione, il suo tentativo di esporre gli orrori della prostituzione a Londra lo portò a una clamorosa disavventura. Stead acquistò una giovane ragazza, pensando di rivelare un crimine, ma la situazione si trasformò in un processo che lo vide condannato a tre mesi di lavori forzati per "procacciare" una prostituta, mettendo in luce le contraddizioni e le pericolosità di un giornalismo che, pur di ottenere risultati sensazionali, può danneggiare tanto quanto contribuire alla causa.

La fotografia, che all'inizio veniva vista come uno strumento scientifico in grado di catturare la "realtà" con una precisione quasi infallibile, non ha mai avuto una storia priva di manipolazioni. Fin dai suoi primi passi, la fotografia venne celebrata come uno strumento oggettivo, destinato a rappresentare il mondo come lo avrebbe fatto una macchina della verità. François Arago, uno dei principali promotori della fotografia, paragonò la macchina fotografica a strumenti scientifici come il termometro e il microscopio, suggerendo che fosse incapace di mentire.

Tuttavia, fin dalle sue origini, la fotografia è stata oggetto di manipolazione. Le immagini scattate durante la guerra di Crimea, ad esempio, sollevarono dubbi sulla loro autenticità. Il fotografo Roger Fenton, incaricato di documentare gli eventi, aveva posizionato le sfere di cannone lungo la strada per ottenere un'immagine più suggestiva. Ma l'immagine di guerra più famosa, "The Raising of the Stars and Stripes on Mount Surabachi", scattata da Joe Rosenthal durante la Seconda Guerra Mondiale, ha sollevato altre controversie. La foto, che ritrae i soldati alzare la bandiera americana, non è la scena originale, ma una ripetizione messa in scena poco dopo l'evento, su richiesta dei comandanti militari. La manipolazione della scena, pur non alterando la tragedia che aveva colpito i soldati, ha sollevato interrogativi sul valore della fotografia come prova storica.

Un altro esempio di manipolazione fotografica riguarda l'immagine romantica di Parigi, simbolo di amore e bellezza, immortalata nella celebre foto di Robert Doisneau. L'immagine di una coppia che si baciava sotto l'occhio di un osservatore disapprovante si è rivelata essere una scena messa in scena. La coppia, composta da attori, fu ingaggiata per ripetere il bacio in diversi luoghi, e l'uomo che appariva come un turista infastidito non era altro che un compagno di viaggio che si era perso. La realtà di un gesto di amore e passione è stata trasformata in una messa in scena per soddisfare le esigenze di una pubblicazione, sollevando domande sulla natura dell'autenticità in fotografia.

Anche se la fotografia viene generalmente accettata come una prova "oggettiva", la sua capacità di raccontare la verità è lontana dall'essere garantita. La manipolazione fotografica, sia prima che dopo lo scatto, è stata una pratica comune, sebbene spesso non venga percepita come tale. Nel caso della rivista National Geographic, l'uso della tecnologia Scitex per spostare le piramidi di Giza sulla copertura della sua edizione di febbraio del 1982 fu un caso che fece scalpore. La rivista fu costretta a promettere che "Scitex non sarebbe mai più stato utilizzato per spostare una delle sette meraviglie del mondo". Allo stesso modo, la manipolazione di immagini digitali è diventata un fenomeno sempre più comune nell'era moderna. Oggi, con la diffusione dei software di editing come Photoshop, molte immagini vengono modificare per dare un significato diverso o per ingannare l'osservatore. Eppure, nonostante le tecniche di manipolazione siano ben note, la convinzione che le foto siano "verità" persiste.

Ciò che bisogna capire è che la fotografia non è un riflesso imparziale della realtà, ma una costruzione interpretativa che dipende dall'intenzione del fotografo, dal contesto in cui viene scattata e dalla maniera in cui viene presentata al pubblico. La fotografia, così come il giornalismo scritto, può essere manipolata, ma ciò non implica che tutte le immagini siano false. Piuttosto, richiede una comprensione più profonda del modo in cui le immagini vengono costruite e presentate. Le foto possono essere utilizzate per raccontare storie vere, ma anche per distorcere la realtà.

Oggi, nel mondo dell'informazione digitale, la sfiducia verso le immagini è aumentata, con molti che considerano le foto che vedono sui social media come manipolate o alterate. Tuttavia, nonostante questa crescente consapevolezza, molte persone continuano a credere ciecamente nelle immagini, proprio come una volta si credeva che la fotografia fosse una verità innegabile.

In un'epoca in cui l'editing digitale è alla portata di tutti, è essenziale sviluppare un approccio critico alla fotografia e alle immagini in generale. Non basta più guardare una foto e accettarla come verità; bisogna considerare il contesto, le motivazioni e le potenziali manipolazioni. La fotografia, purtroppo, non è più l'irrefutabile testimonianza che un tempo era considerata.

La libertà di espressione e i limiti della legislazione contro l'oscenità e l'incitamento alla violenza

La discussione sulla libertà di espressione e sulle leggi che ne limitano l’ambito è da sempre una questione controversa e delicata. In particolare, le normative che regolano l’oscenità e l’incitamento alla violenza continuano a suscitare dibattiti non solo tra giuristi, ma anche tra i cittadini, poiché il confine tra la protezione dei diritti individuali e la salvaguardia dell'ordine pubblico risulta spesso sfumato e incerto.

Molti osservatori concordano sul fatto che leggi contro l'oscenità, pur essendo un tentativo di limitare la diffusione di contenuti potenzialmente dannosi, possano risultare inadeguate e inefficaci. In paesi come quelli del Nord globale, che tendono a essere sempre più laici e scettici, è difficile sostenere la validità di tali leggi senza apparire obsoleti. I cittadini, infatti, manifestano una crescente sfiducia nei confronti delle leggi che criminalizzano la blasfemia, vedendo in esse una limitazione ingiustificata alla libertà di espressione. L’opinione pubblica, molto più che la legge stessa, tende a respingere qualsiasi definizione espansiva di sedizione che criminalizzi ogni tipo di dissenso verso lo stato. In effetti, si può osservare come la democrazia stessa sia in pericolo ogni qual volta il diritto di esprimere un’opinione venga minacciato da leggi che ne limitano la libertà.

Un esempio emblematico di questa dinamica si può trovare nel caso del romanzo I Versetti Satanici di Salman Rushdie, accusato di sedizione negli anni ’90, quando i tentativi di classificarlo come blasfemo fallirono. Nonostante la fallimentare applicazione di queste leggi, la capacità di alcuni avvocati di ricorrere ancora a reati obsoleti dimostra quanto la legge possa rimanere un'arma nelle mani di chi sa come utilizzarla, anche quando sembra ormai priva di fondamento giuridico.

Il concetto di "spirito" che difende la libertà di parola, come indicato da Alexander Hamilton, non è però una protezione assoluta. In alcune democrazie europee, ad esempio, è ancora considerato sedizione offendere i capi di stato stranieri. Inoltre, l’introduzione di nuove legislazioni, come le leggi contro il discorso d’odio o razzista, ha ampliato notevolmente il raggio di azione dei governi nel limitare la libertà di espressione. Le restrizioni relative all’incitamento alla violenza, sebbene legittimate dalla necessità di mantenere l’ordine pubblico, creano un clima di incertezza che influisce negativamente sul diritto fondamentale di esprimere liberamente le proprie idee.

Nel contesto delle leggi sulla stampa, si è sviluppata una tensione tra il diritto di pubblicare liberamente e la possibilità di subire censure per contenuti ritenuti illegali. In effetti, le normative come quella del "no prior restraint" stabiliscono che nessuna pubblicazione debba essere sottoposta a censura preventiva, ma che, se i contenuti pubblicati risultano illegali, le conseguenze saranno inevitabili. Questo principio, formulato da William Blackstone nel 1769, ha resistito nel tempo, ma è stato progressivamente eroso in diverse giurisdizioni, in particolare per quanto riguarda la stampa e i mezzi di comunicazione. Il caso della difesa del giornalismo negli Stati Uniti, dove per dimostrare la diffamazione occorre fornire la prova dell’intento malizioso, evidenzia come le leggi in questo campo possano essere più rigide e protettive rispetto ad altri ordinamenti.

Ciò che resta problematico, però, è la difficoltà di dimostrare i danni causati dalla diffusione di contenuti che violano la legge, soprattutto quando il danno stesso non è evidente o quantificabile. La difficoltà di identificare vittime concrete e la complessità del nesso causale tra un messaggio diffuso e i suoi effetti negativi sulla società rendono la giustizia particolarmente incerta in questi ambiti. La ricerca sociale, pur avendo messo in evidenza le difficoltà di stabilire legami causali tra messaggi mediatici e cambiamenti nei comportamenti, non ha fornito risposte definitive. Ciò ha contribuito alla crescente diffusione di una sorta di "panico morale", in cui si presume che i contenuti dannosi per la società siano diffusi su larga scala, senza che siano necessari dati concreti a supportare questa ipotesi.

In alcuni casi, come nel caso della pornografia negli anni ’60, la semplice affermazione che il materiale fosse intrinsecamente osceno è stata sufficiente per giustificare il ricorso alla legge, senza che fosse necessario fornire prove concrete del danno. Questo approccio, che tende a considerare ogni contenuto sospetto come pericoloso a priori, ha contribuito alla creazione di un clima di autocensura e di limitazione della libertà di espressione. L’esempio del caso in Scozia nel 2011, quando una pagina Facebook fu accusata di incitamento alla violenza pur senza che si fosse effettivamente verificato alcun disordine, dimostra come il semplice atto di pubblicare contenuti possa essere sufficiente a giustificare una condanna, anche in assenza di prove di danni concreti.

In definitiva, la questione della libertà di espressione è una questione di equilibrio tra la protezione della libertà individuale e la tutela dell’ordine pubblico. Sebbene le leggi contro l’oscenità e l’incitamento alla violenza siano giustificate dalla necessità di prevenire danni sociali, è fondamentale che non vengano utilizzate per limitare in modo indiscriminato il diritto di esprimersi. Le incertezze giuridiche e le difficoltà di stabilire nessi causali chiari devono essere affrontate con attenzione, affinché le leggi non diventino uno strumento di controllo sociale ingiustificato.