Nel mondo degli affari, uno degli aspetti più importanti è avere la giusta mentalità per affrontare le difficoltà. Quella notte, seduto accanto a Roy Cohn, un avvocato noto per la sua astuzia e la sua determinazione, capii quanto fosse cruciale per un imprenditore essere pronto a lottare per ciò che riteneva giusto. La nostra conversazione, iniziata come un confronto teorico sui problemi legali che affrontiamo, si trasformò presto in un dibattito sulla filosofia del "combattere piuttosto che arrendersi", un principio che Cohn, pur non essendo un avvocato di facciata, incarnava perfettamente.
Durante il nostro incontro, espressi il mio disprezzo per gli avvocati che, secondo me, preferivano trovare una via di fuga piuttosto che affrontare le battaglie legali. La loro tendenza a "aggiustare" le cose senza mai impegnarsi veramente nella difesa delle proprie idee mi sembrava una debolezza. Cohn, sorprendentemente, concordò con me. Tuttavia, la sua risposta non fu mai un'opinione astratta; lui non parlava mai per partito preso, ma in termini pratici, reali. Mi disse che la sua filosofia era chiara: quando sei accusato, devi combattere per dimostrare la tua innocenza, non arrenderti al primo ostacolo.
Quando il governo accusò la nostra azienda di discriminazione razziale, l'idea di risolvere la questione senza lottare mi turbò. Nonostante avessimo clienti neri nei nostri edifici e la nostra politica fosse di affittare solo a persone con un reddito sufficiente a coprire l'affitto, mi fu consigliato di trovare un accordo per evitare una pubblicità negativa. Fu allora che decisi di chiedere consiglio a Roy. La sua risposta fu immediata e schietta: "Dì loro di andare all'inferno e lotta in tribunale". In fondo, l'idea di cedere senza combattere non era nemmeno un'opzione. Con Roy al mio fianco, affrontammo la causa con determinazione e vincemmo, seppur con un piccolo compromesso che non implicava ammissione di colpevolezza, ma piuttosto un impegno simbolico per una pubblicità equa.
Roy Cohn, nonostante le sue imperfezioni e il suo lato controverso, rappresentava un modello di lealtà e determinazione. La sua straordinaria capacità di memorizzare e argomentare senza appunti lo rendeva uno dei migliori avvocati del suo tempo, ma non solo per la sua abilità intellettuale. Ciò che lo rendeva davvero unico era la sua incrollabile fedeltà verso chi considerava un amico. La sua lealtà era quasi blindata: a dispetto delle sue opinioni personali, si sarebbe sempre schierato con i suoi amici, anche contro il suo stesso interesse.
Se c'era una lezione che Roy Cohn mi insegnò, era questa: la durezza e la lealtà sono qualità inestimabili nel business e nella vita. Per lui, non esisteva la parola "arrendersi". Lottare fino alla fine, anche controcorrente, era l'unico modo per emergere e dimostrare di essere veramente capaci di affrontare qualsiasi sfida. Nonostante le sue numerose accuse e la sua vita sotto indagine, Cohn non mostrava mai segni di debolezza. Quando gli chiesi se avesse mai commesso gli errori di cui era accusato, la sua risposta fu ambigua ma diretta, come solo un uomo d'affari cinico e spregiudicato sapeva essere.
Durante il periodo più critico, quando la città di New York stava attraversando una grave crisi economica e politica, mi convinsi che le difficoltà non devono mai essere viste come un ostacolo insormontabile. Al contrario, esse possono diventare opportunità. La grande crisi di Manhattan, seguita da un crollo del mercato immobiliare, mi permise di vedere un'opportunità là dove altri vedevano solo disastro. La città aveva accumulato debiti, la fiducia nel suo futuro stava scemando, eppure io sapevo che New York sarebbe tornata. Avevo ragione.
Un altro esempio che mi colpì fu la questione del grande deposito ferroviario abbandonato lungo il fiume Hudson. Nonostante la crisi, ero convinto che la posizione e le dimensioni di quel terreno avessero un enorme potenziale. La sfida era renderlo realizzabile in tempi di difficoltà, ma il mio ottimismo e la mia convinzione nella resilienza di New York mi portarono ad intraprendere quel progetto, con la stessa determinazione che avevo visto in Roy Cohn.
Nel corso di queste esperienze, ho imparato che non esiste un unico approccio giusto nel mondo degli affari, ma la capacità di affrontare le difficoltà con fermezza, di prendere decisioni difficili e di proteggere i propri principi è ciò che alla fine determina il successo. E soprattutto, la lealtà, la forza e la determinazione sono gli strumenti essenziali per superare qualsiasi sfida, sia che si tratti di una causa legale, di una crisi economica o di una questione personale.
Come Ho Sfruttato Opportunità Immobiliari Inaspettate e Sfide Inattese per Creare un Sogno Architettonico
Quando accettai di pagare un affitto leggermente più alto, la cifra era comunque molto bassa per un contratto a lungo termine su un sito così strategico. Leonard ed io ci stringemmo la mano, e siamo rimasti buoni amici. È curioso come le cose possano cambiare. Leonard è un uomo più anziano, e negli ultimi anni ha iniziato a riflettere sulla sua eredità e sulla gestione dei suoi beni. Nei primi mesi del 1986, mi chiamò e mi disse che avrebbe voluto farmi un regalo: un interesse del 15% sul terreno sotto l’hotel Ritz Carlton a Central Park South, uno dei suoi beni più preziosi. Inoltre, mi diede il controllo sulla disposizione del terreno quando il contratto di locazione dell'hotel sarebbe scaduto tra circa venticinque anni. Il suo scopo, mi spiegò Leonard, era quello di affidare il terreno a qualcuno che avrebbe potuto ottenere il massimo valore da esso – il che, a sua volta, avrebbe beneficiato i suoi eredi, che mantenevano la proprietà della maggioranza. Leonard è un uomo molto generoso e, allo stesso tempo, molto astuto. Lotterò con tutte le mie forze per la famiglia Kandell.
Arrivato al sito di Kandell sulla 57ma strada, era dicembre del 1978 e mi trovavo in una situazione delicata. Avevo messo insieme tutto il necessario. Ero riuscito a mantenere il segreto sulla trattativa, ma non avevo ancora un contratto con Genesco. All’inizio del 1979, i miei avvocati stavano ancora discutendo gli ultimi dettagli con quelli di Genesco, e ci aspettavamo di firmare i contratti al più tardi entro febbraio. Ma a metà gennaio, le voci cominciarono a filtrare nella comunità immobiliare che Genesco stava per fare un accordo per vendere il sito di Bonwit. Come avevo previsto, Genesco fu immediatamente assediata da acquirenti interessati, tra cui ricchi arabi con soldi derivanti dal boom petrolifero. E, come immaginavo, Genesco cercò in ogni modo di uscire dall’accordo. Anche mentre il nostro contratto era in fase di preparazione, divenne chiaro che, se Genesco avesse trovato una scusa, avrebbe annullato l’affare.
Fu allora che ringraziai la mia fortuna per aver ottenuto quella lettera di intenti di una pagina da Jack Hanigan. Senza di essa, non c’era alcuna possibilità che l’accordo sarebbe andato in porto. Non sono nemmeno sicuro che la lettera avrebbe avuto valore legale, ma almeno avrei potuto usarla per avviare una causa e bloccare la vendita del sito di Bonwit per diversi anni. Naturalmente, feci sapere a Genesco che avevo tutta l’intenzione di farlo se avessero cercato di non rispettare l’accordo. Con i creditori che premevano, sapevo che Genesco non aveva molto tempo. La mattina del 20 gennaio ricevetti una chiamata che si rivelò una benedizione: era Dee Wedemeyer, una reporter del New York Times, che voleva sapere se fosse vero che stavo per fare un accordo con Genesco per acquistare l’edificio Bonwit. Genesco, ancora alla ricerca di un modo per tirarsi indietro, aveva rifiutato di commentare. Decisi di correre il rischio calcolato. Avevo cercato di mantenere segreto l’accordo fino a quando non avessi avuto un contratto firmato, per evitare di scatenare una guerra di offerte. Ma ora le voci circolavano e avevo un venditore che tentennava. Così confermai a Wedemeyer che avevo raggiunto un accordo con Genesco per l’immobile – e che, poiché prevedeva di costruire una nuova torre sul sito, Bonwit sarebbe probabilmente stato chiuso nei prossimi mesi. La mia idea era di mettere sotto pressione Genesco affinché rispettasse l’accordo.
Ciò che non avevo calcolato fu un beneficio secondario. Non appena l’articolo di Wedemeyer fu pubblicato la mattina successiva, tutti i migliori dipendenti di Bonwit cominciarono a cercare lavoro da Bergdorf Goodman, Saks Fifth Avenue e Bloomingdale’s. Improvvisamente Bonwit cominciò a perdere i suoi migliori dipendenti a raffica, e gestire il negozio diventava quasi impossibile. Credo che questo fu il colpo di grazia per Genesco. Improvvisamente smetterono di fare resistenza. Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul New York Times, firmammo il contratto. La disperazione dell’azienda salvò il mio affare.
Tuttavia, la disperazione può essere una lama a doppio taglio. Poiché Genesco aveva un disperato bisogno di denaro, insistettero affinché versassi una caparra del 50% al momento della firma del contratto – 12,5 milioni di dollari – e il restante 50% al momento del closing. I miei avvocati mi consigliarono di non accettare una richiesta così. Secondo loro, esisteva un rischio ragionevole che l’azienda potesse fallire prima che arrivassimo al closing. In quel caso, un giudice della bancarotta avrebbe potuto prendere la mia caparra e usarla per pagare altri creditori. Investire così tanto denaro in una situazione del genere, dicevano, era imprudente. Ma la pensai diversamente. Non ero entusiasta di mettere in gioco 12,5 milioni, ma allo stesso tempo credevo che, più soldi avessi dato a Genesco, più denaro avrebbero avuto per ripagare i debiti e tenere a bada i creditori. Inoltre, il mio periodo di rischio sarebbe stato relativamente breve, poiché era nel nostro interesse comune chiudere l’affare il prima possibile. Di solito, il periodo tra la firma del contratto e il closing è di sei mesi o più. In questo caso, stabilimmo che sarebbe stato di sessanta giorni.
Fin dall’inizio, la dimensione era una priorità. Con una posizione così strategica, più appartamenti riuscivo a costruire, migliore sarebbe stato il ritorno sul mio investimento. Inoltre, più in alto potevo andare, migliori sarebbero state le viste, e più avrei potuto chiedere per gli appartamenti. Un certo Arthur Drexler, del Museo di Arte Moderna, lo espresse bene quando disse: "I grattacieli sono macchine per fare soldi". Drexler lo intendeva come una critica, io lo vedevo come uno stimolo. Fin dall'inizio, tutti quelli con cui parlai furono scettici riguardo alla possibilità di ottenere l’approvazione per costruire un enorme grattacielo in una zona della Quinta Avenue, dove predominano edifici bassi e antichi in pietra calcarea e mattoni. L'avevo sentito anche riguardo al Hyatt, e quindi non presi troppo sul serio gli avvertimenti.
Perché la burocrazia fallisce: il caso della pista di pattinaggio Wollman
Quando mi fu proposto di completare la ristrutturazione della pista di pattinaggio Wollman, avevo un solo obiettivo in mente: finire il lavoro nel minor tempo possibile e rispettare il budget. Se avessi dovuto spendere meno di quanto stabilito, la città mi avrebbe restituito solo la somma effettivamente spesa. Se, al contrario, avessi superato il budget, sarei stato io a coprire i costi aggiuntivi. L'idea di fallire in questo progetto era impensabile: un solo giorno di ritardo o un dollaro in più avrebbe significato un insuccesso clamoroso, con tutte le ripercussioni politiche che avrebbero derivato dalla mia sconfitta. E così, mi trovai ad affrontare un'impresa ardua: ricostruire la pista nel minor tempo possibile e farlo correttamente.
Il mio principale problema era che non avevo esperienza nella costruzione di piste di pattinaggio. La soluzione era ovvia: cercare i migliori costruttori di piste nel mondo. E la logica mi indicò un posto: il Canada, dove il pattinaggio su ghiaccio è considerato il passatempo nazionale, pari al baseball negli Stati Uniti. Le aziende che costruivano impianti per le squadre professionistiche di hockey su ghiaccio erano, senza dubbio, le più qualificate. Tra queste, Cimco, una compagnia con sede a Toronto, era la migliore, avendo costruito la pista per i Montreal Canadiens. Così, chiamai il loro esperto e gli chiesi: "Cosa serve per costruire una grande pista di pattinaggio all'aperto?"
Mi fornì una rapida lezione sulla costruzione di piste. La prima e fondamentale decisione, mi disse, riguardava il sistema di produzione del ghiaccio. La città aveva inizialmente deciso di utilizzare un sistema relativamente nuovo basato sul Freon, un gas refrigerante che richiede meno energia. Sebbene il Freon fosse un'opzione meno costosa dal punto di vista energetico, presentava numerosi svantaggi: il sistema è delicato, difficile da mantenere e soggetto a guasti, soprattutto in strutture pubbliche dove il personale cambia frequentemente. Secondo il mio esperto, almeno un terzo delle strutture che utilizzavano il Freon avevano incontrato gravi problemi. Il sistema alternativo era quello con acqua salata (brine), in uso da decenni in centinaia di piste da pattinaggio. Sebbene più costoso da gestire, il brine era estremamente affidabile e resistente, come testimoniava il fatto che la pista di pattinaggio del Rockefeller Center utilizzava questo sistema sin dal 1936 senza mai affrontare gravi difficoltà. Decisi quindi di adottare il sistema brine per la ricostruzione della pista di Wollman, e la città giunse finalmente alla stessa conclusione, ma solo dopo aver perso sei anni e milioni di dollari.
Nel frattempo, mi resi conto che l'incompetenza della città non si limitava solo alla scelta del sistema di refrigerazione, ma permeava ogni singolo aspetto del progetto. Un rapporto redatto dalla città sulle inefficienze nella gestione del progetto, pubblicato il 16 giugno, documentava sei anni di errori, disorganizzazione e inutili ritardi. La cosa più sconvolgente era che, pur descrivendo una lunga serie di errori, il rapporto non identificava mai i responsabili e non proponeva soluzioni per evitare futuri fallimenti. Anzi, se non fosse stato così triste, sarebbe stato quasi comico.
La città aveva chiuso la pista per lavori di ristrutturazione nel giugno del 1980, ma non c'era traccia di un piano serio fino a un anno dopo, quando finalmente si avviò il processo di progettazione. I lavori veri e propri iniziarono nel marzo del 1981, con l'installazione di 35 chilometri di delicate tubazioni in rame per il sistema Freon. Tuttavia, anche in quel momento, ci furono incertezze riguardo alla posizione della sala macchine e all'attrezzatura da utilizzare, e così, i lavori si fermarono ripetutamente. Nel frattempo, la progettazione del pavimento della pista era stata fatta male: la base del ghiaccio era stata progettata inclinata per un eventuale utilizzo estivo come specchio d'acqua, ma l'inclinazione rendeva impossibile ottenere una superficie di ghiaccio uniforme in inverno. Più il tempo passava, più le difficoltà si accumulavano.
Un altro imprevisto si verificò a luglio 1981, quando una pioggia torrenziale allagò la pista, danneggiando le tubazioni appena installate. Nonostante la gravità del danno, non fu fatta alcuna ispezione fino a settembre. E mentre le tubature venivano distrutte dalle intemperie e dal furto da parte dei vandali, il dibattito sulla progettazione della zona pedonale circostante la pista ritardava ulteriormente i lavori.
La situazione divenne insostenibile: le tubazioni venivano sepolte senza essere mai verificate, e nel 1982, due anni dopo la chiusura della pista, furono finalmente gettate le fondamenta in cemento sopra le tubazioni non testate. Ma questo non fu che l'inizio del disastro. I lavori furono eseguiti male: il cemento fu diluito con acqua per evitare di fermarsi durante la gettata, ma questa mossa portò alla comparsa di crepe subito dopo. E quando finalmente si giunse all'installazione del sistema di refrigerazione, i ritardi continuavano a moltiplicarsi, con l'appaltatore che richiese ulteriori soldi per completare il contratto, aumentando la durata dei lavori.
La lezione che si trae da questa esperienza è che, quando la burocrazia e la gestione inefficiente prendono il sopravvento, i progetti possono essere compromessi irrimediabilmente. Ogni errore, ogni ritardo, ogni indecisione non solo rallenta i lavori, ma moltiplica i costi e le difficoltà. Quando si lavora con grandi progetti pubblici, è essenziale una gestione competente e tempestiva. La città, purtroppo, non aveva né l'uno né l'altro, e il risultato è stato un fallimento su tutta la linea, pagato dai contribuenti e da tutti coloro che aspettavano con impazienza la riapertura della pista di pattinaggio Wollman.
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