Quando si osserva il cielo, il passato appare davanti a noi. Le stelle che vediamo non sono altro che immagini provenienti da un’epoca ormai trascorsa. La luce che ci raggiunge viaggia alla sua velocità, che non è istantanea, e quindi ci permette di guardare nel passato, quasi come se avessimo un superpotere. Anche senza telescopi o dispositivi tecnologici, il nostro sguardo sul cielo ci offre una visione distorta, quasi magica del tempo. La splendida stella Rigel, che brilla nel cielo notturno nella costellazione di Orione, è una fotografia che ci arriva oggi, ma che è stata scattata circa nel periodo in cui Dante Alighieri nacque. In quel cielo stellato si sovrappongono molteplici strati di tempo, tutti racchiusi in una sola oscurità.

Questa percezione del tempo ha affascinato filosofi, scienziati e poeti da secoli. Aristotele, uno dei primi a interrogarsi sul concetto di tempo, lo definì come "il numero del movimento rispetto al ‘prima’ e al ‘dopo’", legato all’esistenza della realtà percepibile. La connessione tra tempo e mondo sublunare è quindi indissolubile. A secoli di distanza, Isaac Newton fornirà una definizione precisa di che cosa sia il tempo. Le equazioni del moto su cui stava lavorando richiedevano che egli lo definisse in termini assoluti, senza che fosse influenzato da nessun altro elemento. Per Newton, spazio e tempo sono due contenitori vuoti nei quali tutta la realtà può essere sistemata. È una visione che mette in evidenza l’idea di un tempo uniforme, che scorre invariabilmente ovunque.

La nostra comprensione del tempo si evolve, eppure, a livello neurofisiologico, continuiamo a percepirlo come una sequenza, come un movimento. Non abbiamo un organo sensoriale specifico per percepire il tempo, ma lo "sentiamo" attraverso la nostra capacità di fare previsioni. Questo è ciò che Dean Buonomano esplora nel suo libro Your Brain is a Time Machine, dove descrive il cervello umano come una macchina che accumula informazioni passate per poter prevedere il futuro. La nostra percezione del tempo è così potente che, anche se non comprendiamo pienamente la sua natura, siamo in grado di mappare la sua evoluzione nel corso della nostra esistenza.

Le diverse culture hanno sviluppato modi unici di concettualizzare il tempo. Ad esempio, nelle culture occidentali, dove la scrittura va da sinistra a destra, il flusso temporale segue lo stesso orientamento: il passato è alle nostre spalle, il presente è qui, davanti a noi, e il futuro è di là da venire. Al contrario, alcune culture, come quella degli Aymara nelle Ande, visualizzano il tempo invertito: il passato si trova davanti, perché è ciò che possiamo conoscere, mentre il futuro è dietro, lontano da noi, incerto e sconosciuto. In un certo senso, questa rappresentazione del tempo è compatibile con la nostra osservazione dell'universo, dove il passato si trova davvero davanti a noi: ciò che vediamo nel cielo è già accaduto, è una proiezione di un tempo lontano.

L’esperienza di percepire il tempo diventa ancora più complessa quando cominciamo a guardare a distanze che sfidano la nostra comprensione immediata. I viaggi nello spazio, le esplorazioni più lontane, ci offrono una visione del nostro posto nell’universo che mai avremmo potuto immaginare prima. Il 14 febbraio 1990, la sonda Voyager 1, mentre stava lasciando il sistema solare, ha scattato una fotografia della Terra da una distanza di 6 miliardi di chilometri. Quella "Pale Blue Dot", come la chiamò Carl Sagan, ci ha mostrato la Terra come un puntino sfocato, un granello di polvere sospeso in un raggio di sole, l’unico posto che abbiamo mai conosciuto. Sagan stesso spiegò questo momento come una scossa di realtà, qualcosa che ci costringe a prendere coscienza della nostra fragilità e della nostra posizione nell’universo.

Queste scosse di realtà sono fondamentali per il nostro sviluppo come specie. Fin dai primi momenti in cui l’uomo ha sollevato lo sguardo verso il cielo, ha cominciato a riflettere sulla propria esistenza e sul proprio posto nel grande disegno dell'universo. Da Victor Hugo, che si trovò per la prima volta faccia a faccia con la Luna attraverso un telescopio, a Jacques Charles, che, ascendendo con un pallone a idrogeno, descrisse la sua esperienza come una "sensazione morale", che lo fece sentire vivo come mai prima, questi momenti ci spingono oltre i limiti della nostra percezione e ci invitano a comprendere la realtà in modo più profondo.

Percepire il tempo e lo spazio come una dimensione fluida e interconnessa, più che un concetto rigido e meccanico, è essenziale per andare oltre il nostro punto di vista limitato e immergerci in una comprensione più vasta dell’esistenza. Con ogni nuova scoperta, con ogni salto verso l’ignoto, siamo costretti a ridefinire ciò che pensavamo di sapere e ad accogliere una realtà che, seppur affascinante, resta misteriosa e sfuggente.

Perché la simultaneità è relativa? La scoperta che ha cambiato la fisica

Nel contesto della relatività, la questione della simultaneità non è affatto banale. La teoria della relatività speciale di Einstein, sviluppata nel 1905, è basata su due principi fondamentali che rivoluzionano il modo in cui comprendiamo il tempo e lo spazio. Il primo è il principio di relatività, che afferma che le leggi della fisica sono le stesse per tutti gli osservatori in moto rettilineo uniforme rispetto a ciascun altro. Il secondo principio, che riguarda la velocità della luce, stabilisce che la luce si propaga nello spazio vuoto alla stessa velocità per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro stato di moto.

Questi principi sembrano, a prima vista, contraddire il nostro intuito. Se la velocità è relativa, come sostiene Galileo, e se la luce ha una velocità finita, come dimostrato da Ole Rømer nel 1676, come può essere che tutti gli osservatori vedano la luce muoversi alla stessa velocità? La risposta, che ha profondamente cambiato la fisica, si trova nel concetto di simultaneità. Einstein ha dimostrato che ciò che sembra simultaneo a un osservatore non lo è per un altro che si muove rispetto al primo.

Immagina due fulmini che colpiscono simultaneamente due punti diversi lungo la piattaforma di una ferrovia. Un osservatore fermo sulla piattaforma vedrà entrambi i lampi al medesimo momento. Ma se l'osservatore è su un treno in movimento, la situazione cambia. Per lui, i lampi non sono simultanei. Il fulmine che colpisce il punto più vicino al treno apparirà prima dell’altro, poiché il treno si sposta verso il punto A e quindi la luce di quel fulmine lo raggiungerà prima. Così, mentre l’osservatore fermo ritiene che i due eventi siano avvenuti contemporaneamente, per chi è in movimento la simultaneità non esiste. Einstein ha chiamato questo fenomeno la "relatività della simultaneità".

Questo concetto implica che ogni sistema di riferimento, che sia un treno in movimento o una piattaforma statica, abbia il proprio "tempo". Le osservazioni di tempo e spazio sono dunque relative al sistema di riferimento da cui vengono fatte. Questo non significa che la velocità della luce cambi, ma che il tempo necessario affinché la luce raggiunga un osservatore dipenda dal suo movimento relativo rispetto alla sorgente luminosa.

Einstein ha così esteso il principio di relatività, già introdotto da Galileo per le leggi della meccanica, anche alle leggi dell’elettromagnetismo, creando una teoria che mantiene invariato il comportamento delle leggi fisiche in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Tuttavia, la costanza della velocità della luce impone un cambiamento fondamentale nella nostra concezione di tempo. Ogni osservatore, indipendentemente dal suo movimento, vedrà la luce percorrere lo spazio alla stessa velocità, ma gli intervalli di tempo tra eventi simultanei per un osservatore stazionario non coincidono per un osservatore in movimento.

La relatività della simultaneità è una delle idee più difficili da accettare, perché sfida la nostra percezione quotidiana del tempo. Nella vita di tutti i giorni, se due eventi si verificano nello stesso momento, sembrano essere simultanei per tutti. Ma nella fisica moderna, questa visione è stata superata. In un universo in cui la velocità della luce è costante, la simultaneità non è più un concetto universale, ma dipende dal punto di vista dell'osservatore.

Questa comprensione ha portato alla necessità di una nuova matematica, che Einstein ha sviluppato, per descrivere il tempo e lo spazio in modo che le leggi fisiche rimanessero invariabili in tutti i sistemi di riferimento. Per fare ciò, Einstein ha utilizzato le trasformazioni di Lorentz, che consentono di descrivere come il tempo e lo spazio si modificano quando un osservatore si muove rispetto a un altro. La relatività, quindi, non riguarda solo il movimento degli oggetti nello spazio, ma anche la percezione del tempo, che non è più una costante universale ma dipende dalla velocità dell'osservatore.

A posteriori, i concetti di simultaneità e di tempo relativo non sono solo questioni astratte per fisici teorici, ma hanno implicazioni pratiche per la tecnologia. Ad esempio, il sistema GPS (Global Positioning System) non potrebbe funzionare correttamente se non tenesse conto degli effetti relativistici. I satelliti, che si muovono a velocità elevate rispetto alla Terra, sperimentano un passaggio del tempo differente rispetto agli orologi terrestri, e il sistema deve correggere queste discrepanze per fornire posizioni precise. Senza queste correzioni, gli errori di posizionamento diventerebbero enormi.

Nel contesto storico, la relatività della simultaneità non è stata un concetto completamente nuovo. Già Galileo, nei suoi esperimenti sulla velocità dei corpi, aveva intuito che la percezione del movimento dipendeva dal sistema di riferimento. Tuttavia, la sua visione non includeva l’idea che il tempo stesso potesse essere relativo. Le sue intuizioni sono state fondamentali per lo sviluppo del pensiero scientifico, ma è stato solo con Einstein che queste idee sono state formalizzate e hanno avuto impatti devastanti su come vediamo l'universo.

Non bisogna nemmeno dimenticare che il concetto di simultaneità relativa ha implicazioni ancora più profonde: se il tempo e lo spazio non sono più assoluti, ciò significa che il nostro universo non è ordinato in modo statico e immutabile, ma è fluido, e dipende dall'osservatore. La realtà fisica è quindi, in un certo senso, costruita dalle percezioni relative degli osservatori.