Nel cuore di Qayrawan, proprio dove si erge la parete qibla, una parte della moschea attirava la mia attenzione. La restante parte della sala di preghiera, buia e intima, contrastava con questa zona che, grazie alla sua altezza e ariosità, sembrava dominare lo spazio, sormontata da una grande cupola in pietra. La cupola poggiava su quattro recessi, scolpiti come l'interno di una conchiglia. Un'iscrizione dipinta correva lungo le quattro pareti, a un'altezza tale che le parole erano quasi illeggibili. Sembrava un dettaglio inutile, ma in quel momento si comprendeva che ogni elemento aveva uno scopo preciso.
Era un'opera di grande bellezza, un lavoro intricato e ben ponderato, che si manifestava anche nei più piccoli dettagli, come quelle piastrelle dorate che venivano sollevate con grande attenzione dai contenitori di paglia. I miei pensieri si concentravano su quella tecnica straordinaria di fusione dell'argento e del rame sulla superficie della ceramica. Mio padre ne parlava sempre con ammirazione, raccontando come queste piastrelle potessero venire dall'Iraq, dove simili oggetti erano stati prodotti fin dall'antichità.
Osservando quelle piastrelle, mi resi conto che non si trattava solo di un lavoro ornamentale, ma di un simbolo di una tradizione che legava i luoghi sacri con le loro radici storiche e culturali. La difficoltà di assemblare le piastrelle in un disegno coerente era evidente. Ogni piastrella aveva un disegno unico, alcuni simmetrici lungo un solo asse, altri su due, e alcuni addirittura richiedevano una simmetria lungo la diagonale. La sfida di assemblarli in un unico schema richiedeva non solo abilità tecnica, ma anche una profonda comprensione della geometria e del simbolismo islamico, che è strettamente legato alla simmetria come simbolo dell'ordine divino.
La conversazione tra mio padre e Abu Zayd mi rivelò che non si trattava solo di un problema tecnico. Le piastrelle dovevano anche adattarsi all'ampio muro qibla della maqsura, il luogo più sacro della moschea. Sebbene la bellezza delle piastrelle fosse innegabile, la loro disposizione doveva rispondere a una logica che non si limitava alla bellezza formale, ma che rispecchiava anche l'ordine divino, la sacralità del luogo e la funzione rituale dello spazio.
Nel frattempo, mi immersi nel mihrab, l'area che indicava la direzione di preghiera. Il mihrab, curvato e ornato con motivi vegetali scolpiti, era un luogo di contemplazione. Ogni dettaglio sembrava nascosto, rivelato solo a chi fosse disposto a cercarlo con attenzione. I pannelli superiori, con spazi tra le foglie scavati fino a rivelare il buio oltre, rappresentavano un mistero che, come mi spiegò un artigiano, non aveva una spiegazione immediata. Esistevano leggende e credenze che legavano queste zone di oscurità al passato, al primo mihrab costruito da ʿUqba ibn Nafis, un simbolo di continuità storica e spirituale.
Questo legame con il passato si manifestava anche nelle scelte architettoniche più evidenti, come il minareto, simbolo della presenza islamica nella città. Perché i governatori di Qayrawan volessero replicare in maniera tanto minuziosa le strutture di Bagdad o Samarra rimane un mistero. La domanda non era tanto sul valore di queste strutture, ma sul loro simbolismo. La torre, o minareto, non era solo un elemento architettonico, ma un segno di come l'Islam cercasse di mantenere un legame con il passato pur proiettandosi verso il futuro.
Le tradizioni architettoniche erano permeate di simbolismo. La scelta di utilizzare materiali provenienti da rovine più antiche, come marmo di edifici pagani, dimostrava un'impronta storica che non si poteva ignorare. Ogni pezzo di marmo, ogni colonna, ogni arco, raccontava una storia di transizione, dal passato pre-islamico all'Islam. E questo non era solo un richiamo alla memoria storica, ma un modo per rendere il presente parte di una lunga tradizione, un filo che univa generazioni passate, presenti e future.
Ma c'era anche una domanda più profonda, legata alla funzionalità di questi elementi architettonici. Perché non creare qualcosa di completamente nuovo, innovativo, che non fosse legato al passato? La risposta, forse, risiede nella consapevolezza che l'architettura, come ogni arte, è intrinsecamente legata alla memoria e alla continuità. L'Islam, pur rinnovandosi continuamente, ha sempre cercato di legarsi alle sue radici, non solo per ragioni estetiche, ma per preservare una connessione spirituale con il passato.
In definitiva, ogni aspetto di quella moschea, dai mosaici alle piastrelle dorate, dai dettagli architettonici fino al minareto, era il risultato di una riflessione profonda sulla sacralità dello spazio e sulla perpetuazione della tradizione. Non si trattava solo di abbellire l'edificio, ma di creare un legame tra la bellezza divina e l'arte umana, tra l'ordine cosmico e la sacralità della preghiera. Ogni dettaglio architettonico, ogni scelta stilistica, aveva un significato che andava oltre l'estetica, permeando ogni angolo della moschea con un senso di spiritualità e continuità.
Come si acquisiscono le rarità e quale valore ha la loro provenienza?
Nel corso della mia conversazione con Haji Mohamed, la domanda che mi assillava riguardava il modo in cui egli avesse messo insieme quelle rarità straordinarie che tanto mi avevano colpito. Non potei fare a meno di esprimere il mio sospetto, intuendo che il furto potesse essere coinvolto, ma lui mi guardò con un sorriso sardonico, spiegando che non aveva bisogno di rubare, visto che gli era sufficiente acquistare ciò che voleva, a qualunque prezzo. Quando mi resi conto che non comprendevo appieno, mi raccontò una storia interessante che gettò luce su un aspetto del commercio che ignoravo. Molti pellegrini, secondo le sue parole, mettevano da parte per tutta la vita i loro risparmi per compiere il viaggio sacro e, lungo la strada, si trovavano costretti a vendere i propri beni per acquistare provviste. Le sue parole erano cariche di un’energia quasi contagiosa mentre descriveva come i mercanti scambiassero borse di frutta nei mercati del hajj con tappeti pregiati, porcellane e argenterie. Aggiungendo poi che vi erano altri metodi per acquisire frammenti di tessuti pregiati, che venivano sottratti dai funzionari responsabili della loro custodia durante le ore più oscure della notte, la sua narrazione divenne ancora più intrigante. Nonostante ciò che aveva detto, la domanda che mi sollevò Salim non era affatto banale: se Abu Zayd fosse così privo di scrupoli, perché comprare da lui? La risposta di Haji Mohamed fu saggia e misurata: "Le benedizioni che accompagnano un oggetto prezioso possono mai superare le circostanze in cui è stato acquisito?" Sospirò, come se quelle parole avessero un peso che non poteva esprimere completamente.
La sua riflessione, in effetti, era destinata a rimanere con me a lungo. Un oggetto, per quanto bello, può davvero conservare la sua purezza o il suo valore intrinseco se la sua provenienza è discussa? Eppure, in quelle parole c'era anche un invito a guardare oltre la mera ricerca del profitto, un invito a riflettere sulla fede e sul significato più profondo di ciò che possediamo.
La scena che si svolse poi, a Londra nel 1892, fece da sfondo a nuove riflessioni sul commercio e sulla bellezza. Salim, mio padre e io arrivammo nel cuore di una città che ci sembrava straniera e distante. Fummo accompagnati da un interprete di nome Abu Zayd al-Saruji, un uomo che, come ci disse Salim, aveva una reputazione ambigua. Le sue abilità nella compravendita di antichità provenienti dall'Egitto, dalla Persia e da altre terre lontane erano indiscutibili, ma Salim nutriva dei sospetti sulla sua integrità. Nonostante ciò, mio padre, che aveva una visione più aperta e fiduciosa del mondo, non esitò a dire: "Solo Allah sa cosa c'è nel cuore delle persone." Fu una risposta che, pur non risolvendo la questione, portò comunque una pace nell'aria.
In un elegante negozio di Londra, osservando i tappeti stesi sul pavimento, rimasi colpita dalla varietà e dalla bellezza dei motivi, ma non riuscivo a fare a meno di pensare che ogni pezzo avesse una storia nascosta. Durante una conversazione con ʿAli, un artigiano che restaurava tappeti antichi, appresi dettagli sorprendenti su uno dei più magnifici esemplari esposti: un enorme tappeto che un tempo adornava il santuario di Shaykh Safi al-Din nella città di Ardabil, in Iran. Era stato realizzato su ordine di Shah Tahmasp, e le sue intricate decorazioni, che includevano una stella centrale e lampade simili a quelle delle moschee, avevano un significato profondo legato alla spiritualità e alla religione. Con un sorriso, ʿAli mi spiegò che quel tappeto, sebbene fosse stato venduto per finanziare i lavori di restauro del santuario dopo un terremoto, portava con sé il segno del maestro che lo aveva creato: Maqsud Kashani. Il suo nome e la data di realizzazione erano visibili lungo il bordo, un chiaro segno di orgoglio per l'opera.
A quel punto, un uomo chiamato William Morris, che si trovava lì per altre ragioni, prese parte alla conversazione. Morris, noto per il suo lavoro come designer, ci parlò della sua passione per la bellezza duratura, legata non solo all’aspetto estetico, ma anche alla funzionalità. Questo concetto di bellezza non fine a se stessa, ma utile e ben progettata, riecheggiava le parole di Haji Mohamed. Le sue riflessioni suggerivano che la bellezza e la fede erano due forze che si intrecciavano, creando qualcosa di duraturo e significativo, a prescindere dalle origini di un oggetto.
Ciò che si può trarre da queste storie e riflessioni è una comprensione più profonda del valore degli oggetti che ci circondano. Non si tratta solo di ciò che possediamo, ma di come questi oggetti siano legati a storie di vita, di fede, di commercio e di tradizioni. Ogni tappeto, ogni pezzo d'arte, ogni frammento di storia portano con sé il peso di un passato che non possiamo ignorare. Il commercio di antichità non è solo una questione di beni, ma di legami invisibili che si intrecciano tra culture, popoli e tradizioni. E così, la vera bellezza di un oggetto non sta solo nella sua forma, ma nel suo significato più profondo, che può essere influenzato tanto dalla sua creazione quanto dalle circostanze che ne hanno determinato il percorso.
Che cosa ci insegnano i burattini e le ombre sul nostro modo di conoscere il divino?
Nel corso di una serata tranquilla, un incontro inaspettato e carico di storie accadde in una casa dal fascino discreto, ma denso di sapere. Un professore tedesco, appassionato di letteratura araba, si trovava seduto a tavola con una famiglia egiziana che aveva a lungo custodito delle antiche marionette. Apparentemente ordinarie, queste figure di pelle, intagliate con maestria, nascondevano dentro di sé il mistero di un passato lontano e un legame intimo con la tradizione di un'arte che mescola teatro, narrazione e simbolismo.
La serata prese una piega particolare quando il nostro ospite, dopo aver mostrato al nostro padre dei burattini di pelle dalle forme incredibilmente raffinate, li espose alla luce di una lampada a benzina. Subito, la pelle scura e ruvida delle marionette si trasformò in un’opera d’arte, animata dalla luce che metteva in risalto le delicate incisioni che decoravano ogni figura. La scena di un cavaliere e del suo destriero, e un servo con un vassoio sulla testa, sembrarono quasi prendere vita sotto gli occhi increduli degli astanti. L’interesse per questi oggetti, inizialmente apparentemente banali, cresceva, grazie alla capacità di chi li custodiva di legare ogni oggetto a una storia che si intrecciava con quella di una cultura millenaria.
L'arte dei burattini ha una lunga tradizione nel mondo arabo, che affonda le radici nel passato più remoto, traendo ispirazione non solo dalla necessità di intrattenere, ma anche dal desiderio di trasmettere insegnamenti profondi. Infatti, l'idea che ci sia più di un semplice spettacolo nelle ombre proiettate sullo schermo di cotone è emersa in modo tangibile durante quella cena. Dr. Kahle, il professore, aveva accennato a un pensiero del grande sufi Ibn ʿArabi, che paragonava le immagini delle marionette alle ombre che proiettano la nostra conoscenza imperfetta del divino. L’immagine di un burattino, che si muove su uno schermo, non è che una manifestazione di qualcosa di più profondo e inaccessibile, proprio come le ombre sulla parete di una caverna, descritte da Platone, sono solo una scarna riflessione della realtà.
I burattini non sono semplicemente oggetti, ma testimoni di storie più ampie, con significati che trascendono la loro funzione di intrattenimento. Nel racconto che il professor Kahle intesseva con passione, si parlava di una famiglia che conservava marionette appartenute a un Pasha ottomano, il quale, sconvolto dalla morte del figlio, decise di dare via quei giocattoli ai suoi servi. Ma queste marionette, a loro volta, avevano una storia da raccontare, un viaggio che le aveva condotte attraverso il tempo e che parlava della vita di una corte e di un'arte perduta.
Ogni marionetta, con la sua forma e i suoi dettagli, portava dentro di sé il segno di una tradizione che si era sviluppata nei secoli. Il motivo ricorrente, un disegno circolare che conteneva un diamante, era simbolo di un principe mamluk, che probabilmente aveva usato queste marionette per animare le fredde notti invernali con spettacoli di ombre. Queste figure non erano solo giocattoli, ma veicoli di storie, emozioni e tradizioni che, nel tempo, si erano trasformati in simboli, trasmettendo insegnamenti spirituali e morali.
Ma cosa ci insegnano davvero queste marionette? Oltre alla loro bellezza artistica, esse ci mostrano la fragilità della nostra percezione. Come nelle ombre che danzano sullo schermo, le nostre conoscenze sono sempre in qualche modo incomplete e provvisorie, un gioco di luci e ombre che ci rivela una parte della realtà, ma mai la sua totalità. La marionetta che appare in una forma precisa sotto la luce della lampada, ma che poi scompare quando il burattinaio la rimuove, simboleggia proprio questo. Il nostro mondo è fatto di illusioni e percezioni che, sebbene siano vere nel loro contesto, sono solo una parte della verità più grande che ci sfugge.
Inoltre, l’uso dei burattini nei contesti di ombra e luce rimanda alla pratica mistica e filosofica che tenta di decifrare il divino. Ibn ʿArabi, e più in generale la tradizione sufi, ha sempre cercato di spiegare come la realtà spirituale sia inaccessibile alla percezione ordinaria dell’essere umano. Le marionette, come le ombre, sono ciò che possiamo vedere, ma non sono mai la realtà in sé. La rivelazione avviene solo quando il “velo” viene tolto e la realtà si mostra in tutta la sua purezza. Ogni gesto del burattinaio, ogni movimento di queste figure, è in qualche modo un tentativo di rivelare la verità, anche se solo parzialmente.
Queste riflessioni sulla natura delle marionette e delle ombre portano a una comprensione più profonda della cultura araba e della sua visione del mondo. Esse non sono semplici giochi di intrattenimento, ma veicoli attraverso cui si esplorano i temi della sofferenza, della perdita e della ricerca del divino. Ogni marionetta, con la sua storia nascosta, ci invita a riflettere su come viviamo e interpretiamo la nostra esistenza, sulla ricerca di un senso che spesso sfugge al nostro sguardo immediato.
Per comprendere appieno il valore delle marionette e delle ombre come strumenti di conoscenza, è fondamentale entrare in sintonia con le tradizioni che le hanno generate, riconoscendo in esse un linguaggio profondo che parla di noi stessi, della nostra limitata visione e del desiderio di comprendere l'incomprensibile.
Come avviene la separazione e la valorizzazione dei materiali compositi da demolizione?
Come Funzionano i Convertitori Analogico-Digitali e le Loro Applicazioni
Come SQL Può Trasformare la Gestione dei Dati e Favorire la Sicurezza Aziendale

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский