ʿAbdallah guardò le nuove pergamene con una soddisfazione discreta, accarezzandone la superficie con le dita, come per testarne la qualità. Nonostante la semplice bellezza di quel materiale, egli sapeva che ciò che vi sarebbe stato scritto avrebbe avuto un valore immensurabile. Le pergamene che stava per usare, provenienti da contatti in Siria, erano rare, frutto di un'antica tradizione di lavorazione, e la loro perfezione era unica, come testimonianza della maestria di un mestiere che affondava le radici nella sacralità stessa del verbo divino. La qualità della pelle non era una semplice questione estetica, ma simbolica: solo un materiale perfetto poteva contenere le parole di Allah, che avrebbero preso vita sulla superficie liscia e immacolata.

Quando ʿAbdallah parlò della sua pratica quotidiana, raccontò di come, fin da giovane, fosse stato immerso nello studio delle parole sacre. Non si trattava soltanto di imparare a scrivere, ma di preservare e riprodurre la parola in tutta la sua purezza. La scrittura, attraverso il pennino che si immergeva nell'inchiostro, non era mai un atto banale: ogni tratto, ogni segno, aveva un peso spirituale e una responsabilità. Così, anche l’uso di pergamene già scritte, seppur danneggiate, non era una semplice operazione di riciclo materiale, ma un’azione di risanamento della parola sacra. La riscrittura dei testi diventava allora un atto di purezza, volto a restaurare l'integrità del messaggio.

Quando ʿAbdallah raccontò di come aveva dovuto raschiare via le parole già scritte su una pergamena, la discussione prese una piega più profonda. La decisione di cancellare quei segni non era una questione di difetti materiali, ma un atto di rispetto verso la perfezione del testo sacro. Le parole già tracciate, seppur umanamente scritte da altri, avevano un errore che, anche se minimo, avrebbe potuto deviare il fedele dal giusto cammino. Questo errore, se trascurato, sarebbe cresciuto nel tempo, allontanando la comunità dalla purezza del messaggio originario. Si trattava, insomma, di un atto di purificazione, simile a quello che il califfo ʿUthman aveva compiuto quando, a nome della comunità, ordinò che tutte le versioni imprecise del Corano venissero distrutte, per preservare l'integrità del testo sacro.

La storia del Corano, con le sue difficoltà e la sua storia di trasmissione, non è soltanto una questione di materiali e di tecniche di scrittura, ma è intimamente legata al destino della fede. La resistenza di alcuni, come Ibn Masʿud, che rifiutò di distruggere i suoi scritti, ci ricorda quanto fosse vitale la fede personale, tanto da essere disposti a combattere contro le autorità stesse per mantenere la purezza del testo come lo avevano ricevuto. La domanda sulla veridicità della versione di Ibn Masʿud è tutt'oggi irrisolta, ma ciò che emerge chiaramente è che la scrittura del Corano, sia essa materiale o spirituale, ha un valore inestimabile. Non si trattava mai solo di copiare parole, ma di garantirne la trasmissione perfetta, affinché ogni parola fosse in grado di guidare il fedele verso la verità.

In tutto questo, il mestiere dello scriba, tanto umile quanto sacro, diventa un atto di riverenza verso la divinità. L'uso della pelle, la scelta dell'inchiostro, il movimento del pennino: tutto era studiato per garantire che le parole non fossero solo trascritte, ma fossero onorate e protette, come un focolare sacro da cui il credente avrebbe ricevuto la luce della verità. Non era solo il contenuto che importava, ma il processo stesso, che avveniva in un contesto di profonda spiritualità e devozione.

L’importanza di questo processo non si limita solo alla scrittura o alla correzione di eventuali errori. È essenziale comprendere che l’atto di scrivere, restaurare, e trasmettere i testi sacri implica una continua tensione verso la perfezione. Ogni errore, per quanto possa sembrare insignificante, minaccia la purezza del messaggio originale. Così come ʿAbdallah scriveva sopra le sue antiche pergamene con la speranza di trasmettere una verità intatta, anche noi, nel nostro quotidiano, siamo chiamati a cercare la purezza delle nostre azioni, delle nostre parole, affinché ciò che trasmettiamo agli altri non si allontani mai troppo dalla verità.

Perché l'architettura tradizionale è fondamentale per il nostro patrimonio mondiale?

L'architettura tradizionale di molte regioni, sebbene spesso sottovalutata, racconta storie di resistenza e adattamento. La città di Djenné, nel cuore del Mali, è un esempio emblematico di come la combinazione di materiali naturali e tecniche antiche possa creare qualcosa che non solo resiste al tempo, ma cresce e si adatta alle esigenze della comunità. La sua famosa moschea, realizzata interamente in mattoni di fango, rappresenta un capolavoro che non solo ha sfidato il passare degli anni, ma ha anche affermato un legame indissolubile con la terra e la gente che la abita.

Dietro alla costruzione di questa moschea, c’è la visione di Ismaila, bisnonno di Fatoumata, che guidò i lavori come capo della corporazione di muratori. La sua opera, che per l’epoca era all’avanguardia, è il risultato di una conoscenza che si tramanda da generazioni e di un impegno che non si limita a una semplice costruzione, ma coinvolge tutta la comunità. La moschea di Djenné non è solo un edificio, è una testimonianza di un’epoca e di un modo di costruire che, pur essendo intriso di tradizione, ha ancora una forte rilevanza nel mondo moderno.

A differenza di altre strutture in cemento e acciaio, l’edificio in fango di Djenné sembra un organismo vivente. La costante riparazione, il rinnovamento delle sue pareti di argilla, rende la moschea una presenza in continua evoluzione. L'uso di materiali naturali come l'argilla, il letame, la paglia e il legno non è solo una questione di praticità, ma una dichiarazione di sostenibilità. Questi materiali non sono solo “economici”; sono anche profondamente legati alla terra, al territorio e alle persone che li utilizzano. L'idea di costruire con l'argilla e di riparare l’edificio con le stesse mani che lo hanno costruito inizialmente crea un ciclo che sembra ripetersi all’infinito, quasi come un simbolo della resilienza umana.

Quando Fatoumata, una ricercatrice locale, parla della possibilità di ottenere il riconoscimento dell’UNESCO per Djenné e la sua architettura, non si limita a un atto burocratico. Quello che sta cercando di fare è mettere in luce l’importanza di questa città, non solo come patrimonio nazionale, ma come parte integrante di un patrimonio culturale mondiale. La sua ricerca, il suo impegno, mirano a preservare non solo l’aspetto fisico dell’edificio, ma anche il significato profondo che ha per la comunità locale.

In questo contesto, è fondamentale considerare la visione dell’architetto egiziano Hassan Fathy, che ha promosso il ritorno a tecniche costruttive più semplici e naturali. Secondo Fathy, riscoprire queste tecniche potrebbe essere la chiave per affrontare molte delle sfide moderne, come l’impatto ambientale e la sostenibilità. Guardando la moschea di Djenné, è facile comprendere la verità di questa affermazione. L’architettura tradizionale non è solo una questione estetica, ma anche una risposta alle necessità del presente.

Oggi, mentre la modernità avanza a passi rapidi, il valore di queste tecniche tradizionali non può essere ignorato. Non è un caso che, in molte parti del mondo, ci si stia interessando di nuovo a soluzioni ecologiche e naturali per la costruzione. Djenné ci insegna che l’architettura non è solo una questione di forma, ma di funzione e di relazione con l’ambiente. Le tecniche tradizionali di costruzione, con la loro capacità di integrare la natura, possono fornire soluzioni che il mondo moderno ha perso di vista.

C’è, infatti, qualcosa di eterno in questa architettura: la sua capacità di rinnovarsi continuamente e di rispondere alle esigenze della comunità senza sacrificare il legame con la storia. Questi edifici non sono statici; sono vivi. E mentre le generazioni passano, la loro forma e la loro funzione si adattano. La moschea di Djenné è solo un esempio, ma ne esistono molti altri in tutto il mondo che dimostrano l’importanza di salvaguardare queste tecniche. Riconoscere questo patrimonio come parte integrante della nostra storia collettiva significa anche rendere omaggio al genio degli uomini e delle donne che, con mani esperte, hanno saputo creare edifici che raccontano la storia del loro tempo, della loro cultura e della loro terra.

Il riconoscimento da parte dell’UNESCO, in questo caso, non sarebbe solo un premio per un’architettura che ha resistito alla prova del tempo. Sarebbe un segno che, nonostante i progressi tecnologici, esiste ancora un valore in ciò che è antico, semplice e legato alla terra. Riconoscere la moschea di Djenné come patrimonio dell’umanità non significa solo preservare un monumento, ma anche un modo di vivere e di pensare che può ancora insegnare molto alla nostra epoca.

Come le parole e i simboli possono proteggere: il significato spirituale degli oggetti rituali nel mondo islamico

"Guarda quello avvolto nella carta blu." Togliendo il involucro, trovai un pacchetto di maschere per il viso in tessuto. "Baba, ne ho già una. Sai che mi protego sempre." "Guardale bene. Sono fatte dal mio amico Abu Zayd nella sua fabbrica. Ne è piuttosto fiero." Le tirai fuori dalla loro busta di cellophane. Ogni maschera aveva un design stampato. La prima mostrava una parte di muro con motivi geometrici e una finestra. Sopra c'erano righe di scrittura. Non c'era tempo per leggerle. La seconda maschera aveva delle scritte in arabo che correvano da un lato all'altro del tessuto. Sopra e sotto c’erano quadrati riempiti con altre scritture. La sollevai verso la videocamera. "Vediamo se ricordi quello che ti è stato insegnato. Riesci a leggerlo?" mi chiese. "Certo, Baba! La scrittura è abbastanza facile: bismillah al-rahman al-rahim. Pensi che abbia dimenticato tutto solo perché sono stato via un anno?" Salim si era alzato e stava in piedi dietro mio padre. "Molto efficace," sorrise. "Nel nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso! Pensa che hai queste parole preziose sulla pelle. Baraka, benedizioni su benedizioni semplicemente indossandole. Non mi sorprenderebbe se…" Le immagini si erano congelate. Rimasi con l'immagine sfocata di mio padre che si appoggiava sulla sedia per rimproverare Salim. Le sue parole si persero nell'etere elettronico. Quanti anni avevano lavorato insieme?

Rivolsi di nuovo l'attenzione sulle maschere. La prima mostrava un ornamento murale con stucco intagliato. Era forse del Marocco o della Spagna? La scritta sopra aveva lettere eleganti e curvanti dorate. C'erano numeri cerchiati, probabilmente che segnano i versi di una sura. Mi piacevano i quadrati sull'altra maschera. Mi ricordavo di aver visto cose simili quando siamo stati a Bukhara; enormi disegni su piastrelle smaltate in cui ci si poteva perdere a guardarli per ore. Erano di nuovo visibili sullo schermo. "Aisha, hai premuto il tasto sbagliato?" "Solo una connessione lenta, Baba, è tutto. Salim, non pensi che queste maschere siano come amuleti, che mi proteggano più di una maschera semplice? Mi sembra sciocchezza, non fede. Pensavo che non credevi in questo tipo di cose." Salim sembrava imbarazzato. "Immagino che non ti piacerà l'altro oggetto che ho messo nella scatola. È quello avvolto nel pluriball." Questo fu il prossimo che tirai fuori dalla scatola. Rimuovendo la plastica vidi il ottone. Non era pesante e la superficie era stampata con lettere e disegni. Un piccolo recipiente si rivelò, ma non fu fino a che non rimuovetti tutto il pluriball che vidi la forma semplificata di una mano, colata in metallo bianco che spuntava dal centro. Attorno c'erano molte piccole parti di lamiera. Guardai perplessa. "Salim l'ha preso al mercato da un mercante persiano," spiegò mio padre. "Si chiamano ciotole magiche, tra l'altro." "Magiche buone," aggiunse Salim con un'aria preoccupata. "C'è così tanto in questo piccolo oggetto. La mano di Fatima è circondata da chiavi per chiudere via ogni spirito maligno. Ai lati vedrai l'occhio malvagio, un quadrato magico e persino l'immagine di un santuario." "Cos'è un quadrato magico?" "Guarda i numeri," rispose. "Se sommi ogni insieme di tre numeri nelle righe e nelle colonne, troverai che ogni somma è uguale. I quadrati come questo proteggono le persone da secoli." "Non è una ciotola per bere? Questa non funzionerebbe molto bene, tutta l'acqua uscirebbe dal buco nel centro." Mio padre si fece pensieroso. "Sai, ho sentito dire che durante la peste nera la gente scriveva parti del Corano in inchiostro all'interno di ciotole di ceramica. Quando ci si versava l'acqua dentro, l'inchiostro si scioglieva." Feci una smorfia. "Che senso aveva? Tutto il duro lavoro dello scriba si sarebbe lavato via." "Non spariva, semplicemente restava nell'acqua. Dovevi solo bere e la scrittura veniva assorbita nel corpo." Presi una delle maschere. "Proprio come l'aria passerà attraverso le parole sul tessuto e nelle mie vene?" Alzò le mani. "Forse, chissà, forse… beh, chi può dirlo? Non fa male provare, no? Alla fine, con o senza scrittura, è comunque una maschera. Suppongo che sia quello che conta di più."

Il potere degli oggetti religiosi nell’Islam è radicato in un profondo rispetto per la parola scritta e per i simboli sacri. L'uso di scrittura, sia essa sacra o decorativa, per proteggere il corpo o lo spirito, non è un fenomeno recente, ma si inserisce in una tradizione millenaria che affonda le radici nelle pratiche magiche e spirituali. La scrittura araba, in particolare, è considerata non solo un mezzo per comunicare ma anche una forma di potere, in grado di proteggere chi la indossa o la conserva. I simboli come l'occhio malvagio, la mano di Fatima, o il quadrato magico sono pensati per allontanare influenze negative e attirare benedizioni. Ma oltre alla protezione materiale, questi oggetti evocano un legame più profondo con la spiritualità e la fede, un invito a riflettere sul significato più profondo che le parole e i segni possiedono nel mondo islamico.

In effetti, la convinzione che la scrittura possa avere un impatto fisico o spirituale è radicata in una visione olistica dell'universo, dove ogni elemento è interconnesso. La scrittura del Corano, ad esempio, non è solo un testo sacro, ma una manifestazione vivente della volontà di Dio. Allo stesso modo, ogni parola scritta su un oggetto, come una maschera o una ciotola, porta con sé una potenza di benedizione o protezione. La bellezza e la potenza di queste pratiche risiedono nel loro significato culturale e religioso, ma anche nella loro capacità di unire l’aspetto materiale con quello spirituale.

Queste pratiche, seppur talvolta percepite come superstiziose, sono intrinsecamente legate a una visione del mondo che rifiuta la separazione tra sacro e profano. Per il lettore, è essenziale comprendere come l'oggetto rituale, attraverso la scrittura e il simbolismo, diventi una "via" per la protezione, il ricordo e la benedizione. Non si tratta solo di un gesto simbolico, ma di un atto di fede, di impegno spirituale, che stabilisce un legame tra l'individuo e la sacralità che lo circonda. La bellezza del gesto è nella sua semplicità e nel suo significato profondo, che va oltre la comprensione superficiale di un semplice amuleto.