Il cosmopolitismo, nelle sue varie espressioni, si fonda sull'idea che tutti gli esseri umani, al di là delle loro differenze politiche o accidentali, provengano dallo stesso ceppo, e che la vita umana, pur se afflitta da innumerevoli calamità, possa essere alleviata dal reciproco affetto e dalla solidarietà. Un punto cruciale di questo pensiero si trova negli Essais di Michel de Montaigne, che, tra le altre riflessioni, sostiene che l'interazione con il mondo sia una fonte di luce per il giudizio umano, in quanto ogni individuo è limitato da sé stesso. Come Socrate che non si considerava cittadino di Atene, ma del mondo, Montaigne espande questo concetto, affermando di considerare tutti gli esseri umani come suoi concittadini, pronti ad abbracciare un polacco come un francese, sostenendo la primazia di un legame universale su quello nazionale.

Questa concezione di cosmopolitismo non è solitaria: Justus Lipsius, nella sua De Constantia (1584), promuove un’etica stoica che cerca di rispondere alle divisioni religiose e politiche che segnavano l'Europa del XVI secolo. Lipsius suggerisce che l'umanità, pur appartenendo a territori diversi, è in realtà unita dalla sua origine comune, e pertanto la propria patria dovrebbe essere il mondo intero, non una parte ristretta di esso. Anche lui cita Socrate, e conclude che la maggior parte delle persone si ostina a restare legata ad una specifica porzione di terra, mentre l'individuo veramente saggio è colui che, riflettendo sulla propria condizione, abbraccia l'intero mondo come propria casa.

Nel contesto del pensiero ebraico, questa riflessione cosmopolita si intreccia con l'esperienza storica e religiosa del popolo ebraico, che da secoli vive in diaspora, distribuito su gran parte del mondo. Il filosofo ebreo Luzzatto, nel trattare il cosmopolitismo, utilizza l'immagine di fiumi che scorrono verso il mare. Questi fiumi, una volta giunti nell'oceano, perdono non solo la dolcezza delle loro acque, ma anche il nome che li definisce. Luzzatto vede gli ebrei come questi fiumi, il cui cammino attraverso i diversi paesi e culture li porta ad adottare costumi e stili di vita differenti, ma il cui spirito ebraico resta invariato. Un esempio di questa dispersione è dato dalla comparazione tra gli ebrei di Venezia e quelli di Costantinopoli, Damasco, Cagliari, o di Germania e Polonia: pur vivendo in contesti diversi, essi mantengono una comune identità culturale e religiosa. Per Luzzatto, questo processo di esilio e dispersione non è solo una condanna, ma una forma di resistenza, che consente agli ebrei di conservare la loro essenza, pur subendo numerose trasformazioni esteriori.

Similmente, Duarte Gomes Solis (1561–1630) utilizza l’immagine di un fiume impetuoso che, partendo dalle Indie, attraversa vari regni per giungere al centro dell’impero cinese, come metafora del flusso incessante di ricchezze, ma anche delle idee e degli influssi che attraversano le nazioni. La circolazione, quindi, non riguarda solo i beni materiali, ma anche le culture, i popoli e le religioni, che inevitabilmente si influenzano reciprocamente.

La metafora del fiume è anche presente nel pensiero di Niccolò Machiavelli, che nel Principe (Capitolo XXV) paragona la fortuna a un fiume in piena, che inonda i campi e spazza via ogni cosa, per poi ritirarsi e lasciare vuoti e deserti. Machiavelli suggerisce che le potenze acquisite con la forza e la violenza sono come torrenti che si gonfiano e si abbassano improvvisamente, mentre le potenze che si basano su radici più solide sono come fiumi che hanno una sorgente continua, e dunque sono destinate a durare nel tempo. In questo contesto, Luzzatto e altri pensatori contemporanei propongono una visione del cosmopolitismo che va oltre le frontiere nazionali e abbraccia l'idea di una cittadinanza universale.

In effetti, la riflessione sulla dispersione e sulla sopravvivenza di un popolo attraverso il tempo è centrale anche nel pensiero di Isaac Cardoso, autore che emerge dal ghetto veneziano. Cardoso, nel suo Las excelencias des los Hebreos (Amsterdam, 1679), sostiene che la dispersione degli ebrei, pur essendo un atto di umiliazione e sofferenza, è anche ciò che ha permesso loro di mantenere una propria identità nel corso dei secoli, di resistere all’oblio. La sopravvivenza degli ebrei, nonostante la loro dispersione, è da lui vista come una manifestazione della volontà divina, e il processo di esilio, pur doloroso, è funzionale alla preservazione della loro cultura e della loro religione.

La riflessione di Luzzatto e Cardoso pone l'accento sulla centralità della spiritualità e dell'identità ebraica, che, pur nell'esperienza di esilio e di diversità culturale, rimane intatta. La visione cosmopolita di questi autori, pur se radicata nella condizione di popolo disperso, non è una visione di separazione o isolamento, ma di inclusione universale. La patria, secondo questi pensatori, non è solo la terra natia, ma il mondo intero, e la vera cittadinanza è quella che trascende i confini politici e geografici, unendo l'umanità sotto un unico cielo.

La Natura Contraddittoria del Cosmopolitismo Capitalista: Nazionalismo, Classi Sociali e Guerra

Il commercio legittimo e le disuguaglianze di potere tra le nazioni costituiscono uno degli aspetti più critici nella visione marxiana delle relazioni internazionali. Marx, nella sua analisi, sostiene che le disuguaglianze tra i paesi permettano a quelli più potenti di esentarsi selettivamente dalle politiche che impongono uniformemente sugli altri. Per esempio, egli osserva come la Gran Bretagna, pur dichiarando la guerra di Crimea una "guerra giusta", non chieda alcuna indennità per le spese di guerra al termine del conflitto, mentre, nel trattato di pace con la Cina dopo la Seconda Guerra dell'Oppio, esige risarcimenti per le spese "incorse, secondo i ministri cinesi, a causa della pirateria di propria mano". Le differenze tra i trattamenti riservati a Russia e Cina non sono dovute a principi morali, ma esclusivamente alla differenza di potere tra le due nazioni.

Il realismo marxiano si distingue per un'analisi implacabile delle dinamiche di potere. La libertà di scambio che il capitalismo promuove, a detta di Marx, non è mai priva di monopolio. Infatti, ogni volta che ci si avvicina all'idea di un commercio internazionale "libero", si scopre che la libertà stessa è confinata nelle mani di pochi, e i benefici sono distribuiti in maniera estremamente disuguale. Marx critica non solo le contraddizioni evidenti nelle azioni delle potenze imperiali, ma anche la superficiale cosmopolitica che spesso si cela dietro di esse. Mentre il capitalismo promuove l'integrazione globale attraverso il commercio, esso, allo stesso tempo, dissolve le affinità comuni, poiché le relazioni di mercato riducono i legami umani a meri scambi economici, svuotando di significato il concetto stesso di "amicizia tra i popoli".

Il cosmopolitismo capitalista non crea una vera comunità universale. Se da un lato l'umanità diventa più simile attraverso il commercio e lo scambio, dall'altro si allontana a causa dell'individualismo e dell'egoismo che il sistema promuove. La cultura e la conoscenza, ad esempio, subiscono un forte depauperamento: le atrocità compiute dalla Gran Bretagna all'estero non vengono mai adeguatamente riportate dai giornali inglesi, poiché non vi è alcun vantaggio economico nell'agitare questioni scomode. In effetti, il cosmopolitismo di cui si vanta il capitalismo non è altro che l'espressione di una società che, pur diventando più globale, non diventa affatto più unita. Le differenze culturali vengono mercificate e ridotte a oggetti di consumo, anziché essere oggetto di un vero dialogo interculturale.

Marx, tuttavia, non esclude che l'integrazione tra le nazioni attraverso il capitalismo possa anche alimentare nuove forme di nazionalismo. La visione di Marx del nazionalismo è intrinsecamente legata al processo di sfruttamento economico. Secondo Marx, la classe borghese, in particolare quella di paesi meno sviluppati, adotterà politiche protezionistiche non per salvaguardare la produzione artigianale locale, ma per garantire che i propri compatrioti siano sfruttati internamente, piuttosto che subire lo sfruttamento straniero. Le ideologie nazionaliste si presentano come un mezzo per proteggere l'industria locale, ma in realtà, come Marx suggerisce, il fine è consolidare un sistema in cui la classe borghese possa esercitare un controllo assoluto sul proprio proletariato. La retorica nazionalista, mascherando il vero intento di sfruttamento, può essere utilizzata anche dai socialisti per costruire una narrazione di "comunità organica" nazionale.

Nel lungo periodo, Marx prevede che, nonostante il controllo che la borghesia esercita sugli stati, la loro capacità di proteggere gli interessi nazionali dalle forze del mercato globale diventerà sempre più debole. Il capitalismo, infatti, non solo erode i confini nazionali, ma genera una nuova forma di conflitto tra le classi. Se Kant sosteneva che il commercio internazionale potesse portare alla pace, Marx crede invece che, proprio per effetto dell'integrazione economica, il conflitto tra le nazioni diventerà più intenso e alimentato dalla lotta di classe interna.

Il nazionalismo, così come la guerra, diventeranno strumenti nelle mani della borghesia per deviare l'attenzione dalla crescente lotta di classe, utilizzando il concetto di "nazione" per perpetuare un ordine economico che la classe lavoratrice non ha scelto, ma che è costretta a subire. Marx, dunque, non vede un'opposizione tra nazionalismo e politica di classe: il nazionalismo è, in ultima analisi, una politica di classe, quella della borghesia, che usa l'idea di nazione come strumento di dominio.

Marx non crede che il capitalismo abbia creato il nazionalismo, ma riconosce che il sistema economico contribuisce a trasformare conflitti etnici e territoriali, preesistenti alla sua nascita, in ideologie nazionaliste utilizzate per giustificare l'oppressione. Le divisioni etniche e territoriali, infatti, precedono la formazione degli stati e la stratificazione sociale, ma è il capitalismo che le rende strumenti di sfruttamento.

Sebbene la sua riflessione sul nazionalismo e le relazioni internazionali non sia sistematica, Marx fornisce uno schema interpretativo utile per comprendere come, pur nell'apparente globalizzazione del mercato, le disuguaglianze sociali e le dinamiche di potere continuino a dar forma alle politiche nazionali e internazionali.

Cosmopolitismo, Internazionalismo e Sovranità Popolare: Il Pensiero di Marx

Le rare invocazioni del cosmopolitismo in una chiave più positiva offrono alcuni spunti significativi sulla critica generale di Marx. Quando egli si riferisce al cosmopolitismo, sia nelle sue connotazioni negative che positive, lo contrappone sempre alla sovranità. I rivoluzionari senza stato che loda non hanno acquisito la cittadinanza di una comunità sovrana. Le classi capitaliste che critica agiscono contro la sovranità popolare, sia nelle proprie comunità che in quelle altrui. Questo indica che Marx distingue tra cosmopolitismo e internazionalismo, associando quest'ultimo alla sovranità popolare. Sembra, quindi, che Marx consideri sia il cosmopolitismo che l'internazionalismo come un impegno verso interessi che trascendono le nostre comunità immediate, ma solo l'internazionalismo lo fa in modi che si riconciliano con la sovranità di queste comunità.

Questo implica che Marx consideri la nazione essenziale per la sovranità popolare? Se Marx pensa che la nazione abbia un valore meramente strumentale nelle lotte di classe proletarie, allora la nazione potrebbe essere eliminata quando una rivoluzione proletaria abolisce con successo le divisioni di classe. Alcuni interpreti leggono Marx in questo modo. Per esempio, Kolakowski sostiene che "il principio fondamentale di Marx è che tutta la mediazione tra l'individuo e l'umanità cesserà di esistere" (1978, 410). Szporluk descrive Marx come cosmopolita (1988, 240), e Pelczynski, condividendo questo giudizio, argomenta che ciò ha contribuito alla sua negligenza riguardo le questioni di nazionalità e nazionalismo (1984, 273). Inoltre, Pelczynski si chiede come, in un comunismo privo di nazioni, una società mondiale potrebbe concepirsi come una comunità che possa comandare la lealtà e l'unità di individui così diversi (277).

Tuttavia, le osservazioni disperse di Marx su questi temi dimostrano che, nel suo concetto di comunismo, non si instaurerà una relazione diretta tra l'individuo e l'intera specie. Per esempio, Marx afferma esplicitamente che le famiglie continueranno (1938, 9). Marx rifiuta l'idea che il comunismo abolisca le nazioni e le nazionalità. La prova più chiara si trova nella sua discussione sulla Comune di Parigi. Marx descrive la Comune come "un governo del popolo per il popolo" (1986b, 339). Questo esprime la forma matura della sua idea di sovranità popolare, un impegno che egli ha mantenuto fin dalla sua giovinezza. Prima di diventare comunista, il giovane Marx sosteneva che una buona costituzione politica dovesse essere fondata sul "vero fondamento", sul "popolo reale" (1992a, 87). Solo allora potrebbe diventare "in apparenza ciò che è in realtà: la libera creazione dell'uomo". Il giovane Marx aveva una sua combinazione peculiare di liberalismo, repubblicanesimo e democrazia radicale. Quando divenne comunista, non fu perché abbandonò questi ideali giovanili, ma perché applicò la sua idea di sovranità popolare ad altri ambiti della società, tra cui la produzione. È per questo che, nel suo commento sulla sovranità popolare raggiunta dalla Comune, non si limita a lodare misure come l'elezione, con suffragio universale, dei consiglieri municipali soggetti a richiamo immediato, ma anche il loro trasferimento del controllo delle officine chiuse ai sindacati dei lavoratori (1986b, 339).

Per Marx, nel corso della storia umana, lo stato è stato un organo sociale che, attraverso la divisione del lavoro, è diventato separato dalla società e si è posto sopra di essa. Pertanto, sebbene lo stato origini dal popolo e abbia la sua esistenza solo grazie a esso, il popolo spesso pensa di esistere come popolo solo a causa dello stato (1977, 149, n. 22). Marx critica questa alienazione. Loda quindi i comunardi per aver assorbito le funzioni dello stato sotto il loro controllo pubblico. In questo contesto, Marx nega le accuse secondo cui i comunardi cercassero di disgregare la Francia: "L'unità della nazione non doveva essere distrutta, ma, al contrario, doveva essere organizzata dalla costituzione comunale, e diventare realtà con la distruzione del potere statale che pretendeva di essere l'incarnazione di quella unità, indipendente e superiore alla nazione stessa, dalla quale era solo una escrescenza parassitaria" (1986b, 332). Marx distingue tra la nazione e lo stato. Sostiene che i comunardi cercavano di emancipare la nazione dallo stato. Lungi dall'annullare la nazionalità, la Comune ne cercava il compimento.

Marx non solo afferma che la sovranità popolare e lo stato-nazione sono reciprocamente esclusivi, ma sembra anche suggerire che la sovranità popolare e la nazione sono reciprocamente dipendenti. Potrebbe sembrare che Marx restringa i suoi commenti sulla nazione al carattere transitorio delle rivoluzioni proletarie, e in tal caso negherebbe che le nazioni persisteranno nel comunismo. Ma già nel Manifesto del 1848, Marx afferma che i conflitti sono intrinseci alle classi, non alle nazioni: "In proporzione a che l'antagonismo tra le classi all'interno della nazione scompare, l'ostilità tra una nazione e l'altra finirà" (Marx e Engels 1976b, 503). Inoltre, nel suo commento sulla Comune, Marx sostiene che "in contrasto con la vecchia società, con le sue miserie economiche e il suo delirio politico, una nuova società sta sorgendo, il cui dominio internazionale sarà la pace, perché il suo sovrano nazionale sarà ovunque lo stesso—il Lavoro" (1986a, 8).

Anche se le nazioni possono emanciparsi dai conflitti che permeano le disuguaglianze di classe e gli stati, perché Marx pensa che le ostilità tra i popoli finiranno? Se i conflitti etnici, nazionali e territoriali sono emersi prima delle classi e degli stati, persisteranno nei tentativi di stabilire società senza classi e senza stati? Marx ritiene che questi conflitti derivino dalle carenze causate dal limitato sviluppo del potere produttivo umano. Questo stabilisce quella che per Marx è la legge generale della storia umana fino ad oggi: lo sviluppo della specie è avvenuto a spese della maggior parte degli individui (Marx 1968, 117–18). Questo rimane vero sotto il capitalismo, ma la sua "socializzazione della produzione" crea la produttività che ha il potenziale di porre fine a tali carenze. Marx sostiene che realizzare questo potenziale richiede di porre fine alla scarsità artificiale provocata dalla divisione della società in classi che si relazionano tra loro attraverso la concorrenza di mercato. Ciò richiede di portare la proprietà produttiva privata sotto il controllo sovrano dei lavoratori.

In questo contesto, il commento di Marx sulla Comune presenta una rivendicazione significativa: La costituzione comunale è stata erroneamente interpretata come un tentativo di frammentare in una federazione di piccoli stati, come sognato da Montesquieu e dai Girondini, quella unità delle grandi nazioni che, se originariamente creata con la forza politica, è ora diventata un potente coefficiente della produzione sociale (1986b, 333). Marx considera la nazione come una componente essenziale della produzione sociale. Lamenta come, sotto il capitalismo, vengano usate violenze immense per integrare le comunità disperse nelle nazioni, così come lamenta la violenta concentrazione della proprietà dispersa attraverso la socializzazione della produzione. Ma questa produzione sociale ora rende possibile porre fine alle disuguaglianze di classe e la nazione ne è il potente coefficiente. Pertanto, la nazione, come la produzione sociale, continuerà nel comunismo, sebbene in una forma diversa. Poiché Marx sostiene che, in proporzione a che le antagonismi di classe scompaiono, anche i conflitti nazionali finiranno, egli deve credere che l'abolizione delle classi ponga fine anche ai conflitti nazionali.

L’Unione Europea può garantire una cittadinanza democratica reale?

La cittadinanza, storicamente legata allo Stato-nazione, si è articolata in quattro dimensioni principali nel ventesimo secolo: i diritti civili, politici, sociali, e i doveri del cittadino, a cui si aggiunge oggi il concetto di cittadinanza attiva. Queste dimensioni costituiscono ciò che può essere definito l’acquis della cittadinanza moderna. Sebbene la critica contemporanea metta in discussione l’universalità di questo modello, soprattutto a causa del suo fondamento su divisioni etniche e di genere proprie del contesto occidentale degli anni ’40, la struttura concettuale rimane utile per analizzare le evoluzioni della cittadinanza in contesti sovranazionali, come quello dell’Unione Europea.

L’evoluzione della cittadinanza europea è stata notevole: da un insieme ristretto di diritti connessi alla partecipazione al mercato comune si è passati a un catalogo articolato di diritti fondamentali, alcuni diritti sociali e diritti politici minimi. In questa trasformazione risuona l’affermazione di Hannah Arendt secondo cui la cittadinanza rappresenta “il diritto ad avere diritti”. Nell’UE, questo diritto non dipende più esclusivamente dalla cittadinanza nazionale, ma si estende a un secondo livello istituzionale: quello sovranazionale.

Tuttavia, tale progresso è più apparente che sostanziale. L’analisi più approfondita mostra che la cittadinanza dell’UE è derivata, settoriale, multilivello, passiva e giuridica. Innanzitutto, essa non si fonda su una cittadinanza europea autonoma, ma deriva dalla cittadinanza degli Stati membri. Il cittadino europeo, quindi, non ha un legame diretto con un’entità sovrana europea, bensì un legame mediato attraverso lo Stato nazionale. L’UE, in quanto tale, non ha un demos sovrano ma aggrega le sovranità statali.

In secondo luogo, la cittadinanza europea è settoriale. Se negli Stati nazionali la cittadinanza implica l’accesso all’intero spettro dei diritti e delle protezioni, nell’UE tali diritti sono distribuiti in modo disomogeneo tra i diversi settori politici. Il primo settore emerso storicamente è quello della cittadinanza economica, legata alla partecipazione al mercato comune: consumatori, produttori, lavoratori e fornitori di servizi godono di una relazione diretta con l’UE, ma solo entro i confini del mercato. I diritti riconosciuti in questo ambito sono principalmente diritti di libertà (libero accesso al mercato, libera circolazione), con una presenza molto limitata di diritti sociali.

Con il Trattato di Maastricht, si è introdotto un primo nucleo, ancora rudimentale, di diritti applicabili a tutti i cittadini dell’UE, indipendentemente dalla loro partecipazione economica: il diritto alla libera circolazione, il diritto di voto nelle elezioni comunali e del Parlamento Europeo nello Stato di residenza. Tali diritti sono stati ampliati con la Carta dei Diritti Fondamentali, ma permangono assenze significative, soprattutto nei diritti sociali che restano prerogativa degli Stati membri. Questo carattere settoriale limita la capacità della cittadinanza europea di funzionare come cittadinanza democratica pienamente sviluppata.

In terzo luogo, la cittadinanza dell’UE è multilivello. I diritti si distribuiscono tra il livello nazionale e quello sovranazionale, ma con densità giuridica e forza normativa assai diverse. L’UE ha una forte competenza nel campo economico, ma i diritti sociali – elemento essenziale della democrazia moderna – sono ancora radicati quasi esclusivamente nei sistemi nazionali. Si crea così un’asimmetria che rende “spessa” la cittadinanza economica e “sottile” quella politica e sociale.

In quarto luogo, la cittadinanza dell’UE è essenzialmente passiva. Le politiche di cittadinanza sono gestite in maniera top-down, imposte dagli organi dell’UE e degli Stati membri. Le pratiche bottom-up, come l’attivismo civico, la partecipazione autonoma ai dibattiti pubblici o la mobilitazione collettiva, sono ancora marginali, anche se in crescita grazie all’azione di ONG, petizioni al Parlamento Europeo e mobilitazioni transnazionali. Oggi, la cittadinanza europea è centrata più sull’uso passivo dei diritti che su una reale partecipazione politica. La democrazia, intesa come esercizio attivo del potere da parte dei cittadini, resta un obiettivo più che una realtà.

Infine, la cittadinanza dell’UE è eminentemente giuridica. Ha ampliato la gamma dei diritti fruibili dai cittadini europei, soprattutto nei Paesi in cui non risiedono abitualmente, estendendo il classico repertorio di diritti con l’introduzione di norme su non discriminazione e pari trattamento. Questo aspetto innovativo ha arricchito l’acquis della cittadinanza, ma non ne ha ancora superato le limitazioni strutturali legate all’assenza di una sovranità democratica comune.

Oltre a quanto emerso, è fondamentale comprendere che l'architettura istituzionale dell’UE non è stata pensata per essere una democrazia rappresentativa nel senso tradizionale del termine. La Commissione Europea non è eletta direttamente dai cittadini; il Parlamento Europeo, sebbene rappresenti gli elettori, non ha pieno potere legislativo autonomo. Il Consiglio, formato dai governi nazionali, conserva una posizione predominante. In questo quadro, il cittadino europeo resta spesso spettatore più che protagonista. La costruzione di una cittadinanza democratica richiederebbe non solo un ampliamento dei diritti, ma anche un ripensamento radicale dei meccanismi di partecipazione, rappresentanza e responsabilità politica a livello europeo.