L’esperienza dello Zimbabwe offre un esempio emblematico della natura complessa e multifattoriale dell’iperinflazione, mettendo in luce il ruolo cruciale della fiducia nel valore della moneta nazionale e le conseguenze di politiche economiche governative errate. L’iperinflazione, come si osserva nel caso dello Zimbabwe tra la fine degli anni ’90 e la prima metà degli anni 2000, è un fenomeno che non nasce dal nulla, ma si sviluppa progressivamente a partire da uno squilibrio tra la spesa pubblica e le entrate fiscali, aggravato dall’intervento diretto della banca centrale nel finanziamento del deficit governativo.

Nel dettaglio, la decisione del governo di aumentare significativamente la spesa pubblica per finanziare un piano pensionistico destinato ai veterani della lotta per l’indipendenza, senza compensare tale incremento con un adeguato aumento delle imposte, ha costretto la banca centrale dello Zimbabwe a stampare moneta per coprire il fabbisogno. Tale politica, combinata con la riforma agraria che ha portato alla redistribuzione delle terre agricole dai coloni bianchi a contadini senza esperienza, ha ridotto drasticamente la capacità produttiva del paese. La conseguenza diretta è stata una perdita di beni reali disponibili nell’economia e un aumento dell’offerta monetaria, che ha innescato una spirale inflazionistica.

L’azione governativa di controllare i prezzi e impedire la fuoriuscita di valuta ha prodotto un effetto paradossale: la nascita di mercati neri e l’espansione dell’economia informale, fenomeni che hanno ulteriormente eroso le entrate fiscali e alimentato la necessità di ulteriore finanziamento monetario. Programmi di credito agevolato, invece di stimolare la produzione, hanno finito per canalizzare risorse verso il sostegno di gruppi politici fedeli, aggravando la crisi senza incrementare la capacità produttiva.

La svolta verso attività cosiddette “quasi-fiscali” da parte della banca centrale, che ha assunto direttamente compiti di spesa governativa, ha ulteriormente peggiorato la situazione, accelerando l’inflazione verso livelli estremi, fino a superare il milione per cento annuo. L’introduzione di nuove banconote di valori astronomici e il congelamento arbitrario di prezzi e salari hanno alimentato la sfiducia nella moneta, con un collasso totale della domanda per il dollaro dello Zimbabwe, sostituito da valute estere come il dollaro statunitense e il rand sudafricano.

L’esperienza dello Zimbabwe, pur con le sue specificità, riflette una dinamica comune alle crisi iperinflazionistiche: la perdita di fiducia nel valore della moneta nazionale legata all’incapacità o alla riluttanza del governo di attuare una politica fiscale sostenibile, insieme al ricorso massiccio alla creazione monetaria per finanziare la spesa pubblica. È significativo osservare che l’iperinflazione non esplode all’improvviso, ma si sviluppa nel tempo, offrendo teoreticamente l’opportunità di interventi correttivi, che però sono spesso evitati o ostacolati da dinamiche politiche e sociali.

Oltre alla necessità di comprendere il legame diretto tra spesa pubblica insostenibile e iperinflazione, è fondamentale per il lettore cogliere come l’effetto della perdita di capacità produttiva aggravi il quadro inflazionistico, trasformando la crisi monetaria in crisi reale, con conseguenze profonde sul benessere e sulle condizioni di vita della popolazione. L’espansione dell’economia informale e la distorsione dei mercati legati ai controlli dei prezzi sono segnali di un sistema in profondo squilibrio, in cui le normali regole di mercato vengono sospese e sostituite da pratiche parallele e spesso illegali.

Infine, la storia dello Zimbabwe sotto

L'importanza della gestione dei derivati finanziari: il caso Procter & Gamble e le lezioni dai rischi degli swap

Negli anni '90, i gestori finanziari delle grandi aziende si trovavano sempre più spesso a lavorare con strumenti derivati, in particolare con gli interest rate swaps. Questi strumenti, che permettono alle aziende di scambiarsi flussi di pagamento legati ai tassi di interesse, venivano inizialmente considerati come una novità per la gestione del rischio. Tuttavia, con il tempo, le aziende hanno acquisito una familiarità crescente con il loro funzionamento. Un esempio significativo di questa evoluzione è rappresentato dal caso di Procter & Gamble (P&G), che ha iniziato a utilizzare swap con Bankers Trust nei primi anni '90.

Nel 1993, P&G ha concluso uno swap "plain vanilla" con Bankers Trust, che prevedeva il pagamento di un tasso di interesse variabile legato al tasso della carta commerciale e la ricezione di pagamenti a tasso fisso. Durante il periodo di validità di questo swap, i tassi di interesse sono diminuiti, consentendo a P&G di risparmiare significativamente sui costi di finanziamento. Alla scadenza del contratto, Bankers Trust ha proposto un nuovo swap, questa volta non standard, ma "proprietario", creato su misura per P&G.

Questo nuovo swap, del valore nozionale di 200 milioni di dollari, manteneva la struttura di scambio tra tassi fissi e variabili, ma con una modifica sostanziale: il tasso variabile non era più legato ai tassi standard, come il tasso della carta commerciale o l'LIBOR, ma a una formula che dipendeva dalla differenza tra il tasso di interesse dei titoli di Stato americani a 5 anni e il prezzo dei titoli a 30 anni. Inizialmente, il tasso variabile risultava particolarmente vantaggioso per P&G, grazie a una base bassa e a un spread negativo.

Tuttavia, la situazione si è rapidamente modificata quando la Federal Reserve ha iniziato a aumentare aggressivamente i tassi di interesse a partire dal 1994. Con l'aumento dei tassi, lo spread, inizialmente negativo, è diventato positivo e ha continuato a crescere, portando il tasso variabile a salire in modo esponenziale. Questo cambiamento ha avuto conseguenze devastanti per P&G, che si è ritrovata a pagare tassi molto più alti di quanto previsto. Nel tentativo di limitare le perdite, P&G ha chiesto una modifica del contratto, ma la nuova situazione ha comunque comportato una perdita superiore al 14% rispetto al tasso iniziale, causando una perdita netta di oltre 100 milioni di dollari.

A seguito di questo episodio, P&G ha deciso di fare causa a Bankers Trust, accusando la banca di averla indotta a contrarre un contratto troppo rischioso. Altri clienti di Bankers Trust, come Gibson Greetings e Air Products, hanno fatto cause simili dopo aver subito perdite simili. Il caso ha attirato l'attenzione del pubblico e delle autorità, rivelando le pratiche discutibili adottate dalla banca. Bankers Trust, che aveva ampliato significativamente la sua attività nel settore dei derivati negli anni '90, era diventata una delle principali istituzioni coinvolte nella vendita di swap complessi. Tuttavia, la sua cultura aziendale era cambiata: i clienti erano ormai visti come "controparte", un termine che indicava un atteggiamento più cinico e competitivo verso chi acquistava i prodotti della banca.

Nel contesto di queste pratiche, è importante sottolineare che la gestione dei derivati finanziari, sebbene possa portare a benefici significativi, presenta anche rischi enormi. I derivati, come gli interest rate swaps, sono strumenti sofisticati che richiedono una comprensione profonda delle dinamiche di mercato e dei rischi associati. Nel caso di P&G, i manager aziendali avevano mostrato una certa sicurezza nell'utilizzo degli swap standard, ma la loro fiducia li ha indotti a sottovalutare i rischi di un contratto più complesso e personalizzato.

Il caso P&G ha evidenziato una linea sottile tra la gestione del rischio e la speculazione. Spesso, le aziende cercano di utilizzare gli strumenti finanziari per coprire i rischi esistenti, ma questo può facilmente trasformarsi in una strategia di speculazione se non si valutano adeguatamente le variabili che potrebbero influire sui costi e sui ritorni. In questo caso, l'incapacità di prevedere l'andamento dei tassi di interesse ha portato a un esito disastroso. È quindi fondamentale che le aziende non solo comprendano i rischi di questi strumenti, ma siano anche in grado di gestirli con prudenza.

Dopo l'incidente, Bankers Trust ha subito una serie di azioni disciplinari da parte delle autorità di regolamentazione e ha dovuto fare fronte a multe e a procedimenti legali, ma la questione sollevata dal caso P&G è più ampia. La responsabilità di comprendere e monitorare gli strumenti finanziari complessi non può essere scaricata completamente sui fornitori di servizi finanziari. Le aziende devono investire risorse adeguate per educare i propri gestori finanziari e per sviluppare capacità interne di analisi dei rischi. Inoltre, la trasparenza e la comunicazione chiara delle condizioni contrattuali sono essenziali per evitare incomprensioni e conflitti futuri.

Infine, nonostante le criticità emerse da questa vicenda, gli swap standard sono ancora considerati una delle innovazioni finanziarie più utili degli ultimi decenni. La loro capacità di ridurre i costi di finanziamento e di offrire una protezione contro il rischio di variazioni dei tassi di interesse è innegabile. Tuttavia, è fondamentale che il mercato degli swap continui a evolversi in modo da garantire che i rischi siano adeguatamente compresi e gestiti da tutte le parti coinvolte.

Come si è trasformata una crisi ipotecaria in un panico finanziario globale?

Nel 2007, l’illusione che i mercati finanziari si fossero emancipati dai tradizionali fenomeni di instabilità fu bruscamente infranta. Il mito della disciplina settoriale, che avrebbe dovuto mantenere l’ordine attraverso la responsabilità degli attori di mercato, si rivelò per quello che era: una costruzione teorica incapace di contenere le dinamiche reali e speculative del capitalismo finanziario moderno. Le istituzioni, i regolatori e i mercati avevano concesso troppa autonomia a un sistema che, invece di autoregolarsi, aveva ampliato le sue fragilità in modo sistemico e incontrollato.

Quello che accadde tra il 2007 e il 2009 fu una corsa agli sportelli in chiave moderna. Non più code fisiche davanti alle banche, ma ordini elettronici di disinvestimento, scambi compulsivi, richieste immediate di liquidità. Le linee di credito evaporarono in tempo reale. Il meccanismo era lo stesso di un classico bank run, ma con strumenti e velocità adeguati all’era digitale. Le istituzioni coinvolte non erano solo banche commerciali, ma anche hedge fund, assicurazioni, banche d’investimento: un universo interconnesso in cui l’insolvenza di uno implicava la fragilità di tutti.

La miccia fu accesa da nuove informazioni emerse all’inizio del 2007: le obbligazioni garantite da mutui subprime si stavano rivelando molto più rischiose di quanto dichiarato. Non era necessario che tutte le notizie fossero vere: bastava che fossero credibili. Gli investitori, improvvisamente, non si fidavano più. Trillioni di dollari concessi in prestito furono richiesti indietro. La percezione del rischio mutò nel giro di settimane, spazzando via quella che era considerata la “Goldilocks economy”, un’economia “né troppo calda né troppo fredda” in cui anche famiglie a basso reddito potevano, si pensava, reggere un mutuo mensile.

Fino agli anni Novanta, il credito subprime era marginale o inesistente. Il mercato distingueva nettamente tra chi era meritevole di credito e chi no. Ma la diffusione dei credit score elettronici e l’uso di modelli analitici sempre più raffinati portarono a una nuova classificazione del rischio. Alcuni mutuatari, pur con una storia creditizia imperfetta, non erano intrinsecamente rischiosi: avevano solo attraversato momenti sfortunati. I prestatori scoprirono che potevano guadagnare tassi d’interesse elevati assumendosi questi rischi “calcolati”.

Così, nacque e si sviluppò il mercato dei mutui subprime. Inizialmente associato ai prestiti auto, si estese progressivamente ai mutui immobiliari. La crescita fu esplosiva: nel 1994 si originarono $35 miliardi in mutui subprime, nel 2006 un mutuo su tre negli Stati Uniti era subprime. La macchina era alimentata dalla fame di rendimento degli investitori, che acquistavano titoli garantiti da questi mutui ad alto interesse. Le istituzioni finanziarie abbandonarono il modello tradizionale del “prestare e mantenere” in favore del nuovo paradigma: “originare e distribuire”. Vendere il rischio, piuttosto che gestirlo.

Le principali società di cartolarizzazione, escluse dal mercato dei mutui prime dominato da Fannie Mae e Freddie Mac, trovarono nei subprime un modo per entrare nel business. L'incentivo era chiaro: produrre il maggior numero possibile di mutui da trasformare in titoli, da impacchettare e rivendere. Nel 2006, più di un trilione di dollari in titoli MBS subprime vennero emessi, superando la metà di tutta la cartolarizzazione ipotecaria statunitense. Il totale detenuto dagli investitori raggiunse circa $2.1 trilioni. Le fondamenta della crisi erano ormai gettate.

La pressione ad aumentare il volume dei mutui da cartolarizzare portò inevitabilmente a un progressivo abbassamento degli standard di concessione del credito. Questo fenomeno si intensificò con l’ascesa dei CDO (Collateralized Debt Obligations), che aggregavano titoli MBS in strumenti ancora più complessi. Gli incentivi perversi del sistema spingevano a concedere prestiti a mutuatari sempre meno affidabili, nella certezza che il rischio sarebbe stato trasferito ad altri. Il fallimento di New Century nel marzo 2007 fu il primo segnale tangibile della crisi: un prestatore subprime crollato sotto il peso delle insolvenze.

Quel che è essenziale comprendere è che la crisi non fu generata solo da una cattiva valutazione del rischio, ma da una vera e propria architettura sistemica che favoriva l’opacità, incentivava l’irresponsabilità e moltiplicava il rischio attraverso la leva finanziaria e la frammentazione del credito. Gli attori scommettevano sul fatto che il rischio fosse diluito, quando in realtà era solo nascosto.

La vulnerabilità collettiva non nacque da un errore isolato, ma da un’intera ideologia di mercato che aveva confuso sofisticazione con stabilità, ingegneria finanziaria con gestione prudente. L’equilibrio era basato su aspettative errate, su modelli teorici che non contemplavano l’asimmetria informativa, la fiducia improvvisamente ritirata, il panico razionale. Non bastava che un investitore perdesse fiducia: bastava che credesse che gli altri l’avessero persa. Questo meccanismo autoalimentato rese il sistema vulnerabile alla minima scossa.

La lezione cruciale è che la stabilità apparente è spesso