L'approvazione di leggi che regolano il sistema elettorale e i diritti civili è una questione delicata e complessa, che varia considerevolmente da nazione a nazione. In questo contesto, gli Stati Uniti e l'Australia, pur condividendo legami storici e alleanze internazionali, presentano differenze notevoli in relazione ai diritti di voto, alle leggi sull’aborto e alle politiche sul controllo delle armi.
Il sistema elettorale australiano è universalmente riconosciuto come un modello di democrazia avanzata, un sistema che permette una partecipazione inclusiva senza discriminazioni razziali. A differenza degli Stati Uniti, dove le regole elettorali hanno tradizionalmente dato spazio a pratiche discriminatorie, in Australia le riforme elettorali hanno aperto la strada a una partecipazione universale e obbligatoria. I diritti di voto per i popoli indigeni furono riconosciuti grazie al Commonwealth Electoral Act del 1962, e tutti gli stati australiani si conformarono alle normative entro il 1965. Sebbene le problematiche di giustizia razziale persistano, non vi è mai stato un trattamento discriminatorio nei processi elettorali, a differenza degli Stati Uniti, dove le leggi elettorali sono storicamente state oggetto di manipolazioni per svantaggiare le minoranze.
Un altro aspetto in cui Australia e Stati Uniti divergono in modo significativo è la questione dei diritti riproduttivi. La decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di abrogare la sentenza Roe v. Wade ha scatenato un acceso dibattito che ha diviso profondamente la società americana. In Australia, però, l'aborto non è mai stato oggetto di un conflitto politico particolarmente acuto, e la maggioranza della popolazione è saldamente contraria a qualsiasi legge che lo proibisca. Mentre l’aborto è ancora una questione che genera divisioni politiche in molte parti del mondo, in Australia non c’è alcun movimento concreto per revocare i diritti delle donne. Le leggi sull'aborto variano tra gli stati australiani, ma nessuna di esse prevede un ritorno alla criminalizzazione dell'aborto, come invece sta avvenendo negli Stati Uniti sotto la spinta di forze politiche conservatrici.
Infine, la questione del controllo delle armi costituisce un’altra significativa differenza tra i due paesi. Dopo la strage di Port Arthur del 1996, l’Australia ha introdotto leggi severissime sul controllo delle armi, che hanno avuto un impatto duraturo nella riduzione delle morti causate da armi da fuoco. Da allora, il paese non ha mai più visto una strage simile. Al contrario, gli Stati Uniti, nonostante una serie di tragici eventi simili, non sono riusciti a implementare riforme efficaci nel controllo delle armi, rimanendo prigionieri di un poderoso lobby pro-armi che impedisce qualsiasi cambiamento legislativo sostanziale. La posizione dell'Australia è chiara: nonostante la presenza di armi nel paese, il tasso di mortalità per armi da fuoco è tra i più bassi al mondo, un risultato che gli Stati Uniti non sono riusciti a emulare.
Queste differenze riflettono non solo le diverse tradizioni politiche, ma anche le divergenze nei valori fondamentali e nelle priorità sociali. La posizione australiana sui diritti riproduttivi e il controllo delle armi evidenzia un approccio pragmatico e univoco che mette al primo posto la sicurezza, la salute e la libertà individuale. In confronto, la complessità della politica americana in questi ambiti è alimentata da forti influenze ideologiche e da un sistema che non sempre riesce a rispondere adeguatamente alle esigenze della popolazione.
In questo contesto, è importante comprendere che il panorama delle politiche pubbliche non è mai statico e che le normative in vigore sono il risultato di un lungo processo di evoluzione sociale, culturale e politica. Mentre le problematiche legate alla giustizia razziale, ai diritti delle donne e al controllo delle armi rimangono critiche, l'approccio adottato in Australia ha dimostrato che è possibile trovare soluzioni che preservano i diritti fondamentali senza alimentare divisioni insanabili.
Quali sono le differenze fondamentali tra DeSantis e Trump e come si preparano a influenzare il futuro politico degli Stati Uniti?
Ron DeSantis ha spesso dichiarato che la sua vittoria alle elezioni presidenziali potrebbe rappresentare una continuazione delle conquiste sotto la bandiera di Trump, ma con un approccio decisamente diverso. Mentre Donald Trump ha fatto dell'antagonismo verso l'establishment e della retorica incendiaria il cuore della sua politica, DeSantis sta cercando di capitalizzare su questi stessi temi, ma con una visione più disciplinata e metodica.
Nato trentadue anni dopo Trump, DeSantis ha un percorso che, sebbene politicamente allineato a quello del suo mentore, si distingue per alcuni aspetti cruciali. Cresciuto a Dunedin, in Florida, una cittadina costiera poco distante da Tampa, DeSantis ha incarnato fin da giovane la determinazione e l’approccio sistematico che lo caratterizzano ancora oggi. La sua infanzia non è quella del bambino che gioca a Little League senza molta attenzione, ma del ragazzo che studia il "The Science of Hitting" di Ted Williams per perfezionare il suo gioco. Questo spirito di competizione lo ha accompagnato lungo tutta la sua carriera, sia nello sport che nello studio.
DeSantis si è laureato con lode a Yale nel 2001, prima di continuare gli studi a Harvard Law School, dove ha conseguito il titolo di Juris Doctor. La sua carriera militare, cominciata mentre frequentava il secondo anno di legge ad Harvard, gli ha garantito numerosi riconoscimenti, tra cui la Medaglia di Bronzo e la Navy and Marine Corps Commendation Medal per l'eroismo dimostrato durante il servizio in Iraq. La sua carriera nell’esercito è una delle principali differenze rispetto a Trump, il quale non ha prestato servizio militare a causa di problemi di salute, come affermato dal suo medico.
L’ingresso in politica di DeSantis avviene nel 2012, quando viene eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti per il distretto numero sei della Florida. La sua campagna si è concentrata su una retorica che enfatizzava il suo impegno come veterano, cittadino e non politico. Nonostante un inizio relativamente discreto, il suo impegno politico ha guadagnato consensi soprattutto tra i conservatori, alimentando la sua immagine di uomo di principio, lontano dagli schemi della politica tradizionale.
Nel 2018, DeSantis ha vinto la carica di governatore della Florida con una differenza di appena 100.000 voti, ma il suo successo è stato in gran parte il risultato dell’appoggio diretto di Trump, che ha contribuito a consolidare la sua base elettorale. Nonostante la vittoria stretta, DeSantis ha subito mostrato segni di volersi differenziare dal suo mentore, pur rimanendo fermamente ancorato ai temi che avevano fatto il successo di Trump: la difesa dei valori conservatori e la retorica "anti-establishment".
Il periodo della pandemia di COVID-19 ha segnato un punto di svolta nella sua carriera. Durante questa fase, DeSantis ha affinato un approccio più aggressivo, diventando sempre più simile a Trump nel suo atteggiamento verso le istituzioni e nella gestione dei media. La sua retorica si è fatta più polarizzante, spesso schierandosi apertamente contro le politiche della sinistra e prendendo posizioni forti su questioni come la gestione della salute pubblica e le libertà civili. Sebbene molti lo considerino più composto rispetto a Trump, DeSantis ha dimostrato di saper sfruttare le stesse dinamiche populiste, rendendosi visibile in un contesto nazionale.
DeSantis è, quindi, un politico con un’identità forte, ma che ha sempre cercato di differenziarsi da Trump. Mentre il suo mentore ha costruito una carriera sulla sua immagine di outsider e la sua capacità di muoversi tra le polemiche, DeSantis ha fatto della disciplina e del lavoro incessante il suo marchio distintivo. Tuttavia, nonostante il suo tentativo di distanziarsi dal caos che caratterizza spesso la figura di Trump, è inevitabile che le sue politiche e il suo approccio continuino a richiamare l’elettorato conservatore che ha portato Trump alla Casa Bianca.
In ogni caso, l'ascesa di DeSantis segnala che la sua visione per gli Stati Uniti non si limita a una mera continuazione del mandato di Trump. Sebbene DeSantis si presenti come un difensore dei principi fondatori della nazione e come un avversario della direzione progressista intrapresa durante l’amministrazione Obama, le sue scelte politiche – sia internamente che esternamente – riflettono la persistente centralità della politica identitaria e la continua sfida alle convenzioni politiche tradizionali.
In sintesi, DeSantis è pronto a usare le stesse leve politiche che Trump ha sfruttato per raccogliere consensi tra i conservatori. Tuttavia, la sua strategia si distingue per una maggiore attenzione ai dettagli e un approccio che combina l’impegno con il calcolo politico. Se riuscirà a mantenere questa direzione, potrebbe rappresentare una nuova versione del populismo repubblicano, che pur mantenendo intatte le promesse di Trump, si differenzia nel suo modo di affrontare la politica e le sfide della contemporaneità.
Cosa accade se la democrazia americana fallisce?
La battaglia che stiamo vivendo oggi è una lotta per la democrazia, per la decenza e la dignità, per la prosperità e il progresso, una lotta per l'anima stessa dell'America. La domanda che si pone, tuttavia, è cosa succederebbe se questo sforzo fallisse, se la democrazia americana venisse distrutta. Cosa accadrebbe se, nel 2024, Trump riuscisse a stravolgere il sistema democratico degli Stati Uniti, come sembra intenzionato a fare?
Immaginate un scenario in cui il presidente in carica dichiarasse la legge marziale, dispiegando le truppe militari nelle città americane per sedare le manifestazioni e ristabilire l'ordine. Immaginate che Trump ignori gli ordini dei tribunali, violando le leggi del Congresso, e proceda con l'arresto e l'incarceramento dei suoi nemici politici. In un simile scenario, il sistema democratico, il processo elettorale stesso, verrebbe annientato. Cosa succederebbe se le elezioni venissero annullate o manipolate, con la sostituzione dei risultati legittimi con quelli favorevoli al presidente? La stessa possibilità che Trump, se rieletto, possa tentare di distruggere l'integrità del voto e del conteggio delle schede elettorali attraverso la nomina di alleati leali a ogni livello statale, metterebbe a rischio l'intero sistema di rappresentanza popolare.
Le parole di Jim Clyburn, esponente del Congresso, sono chiare e premonitrici: gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi in una condizione simile a quella della Germania pre-nazista, dove un leader democraticamente eletto ha cooptato i media e manipolato l'informazione per consolidare il proprio potere. Oggi, l'attacco alla verità e alla libertà dei media sembra ripetersi, con Trump che etichetta i giornalisti come "nemici del popolo", proprio come fece il regime di Hitler. Il rischio che gli Stati Uniti diventino un paese simile all'Ungheria, anziché restare una democrazia liberale, è ormai una possibilità che molti osservatori, sia dentro che fuori il paese, non possono ignorare.
Un'ulteriore preoccupazione riguarda l'influenza che tale scenario potrebbe avere non solo sulla politica interna degli Stati Uniti, ma anche sulle alleanze internazionali, come quella con l'Australia. La solidarietà con una democrazia libera potrebbe diventare insostenibile se gli Stati Uniti cessassero di esserlo. Come spiega Emma Shortis, storica e politologa, è fondamentale prepararsi mentalmente alla possibilità che Trump possa tornare al potere e affrontare un dibattito pubblico su come l'Australia dovrebbe rispondere. Non è più il caso di sperare che un altro candidato del Partito Repubblicano possa risolvere la situazione, dato che le radici di Trumpismo sembrano ben salde. L'illusione che le elezioni di metà mandato del 2022 abbiano segnato una sconfitta irreversibile per Trump è pericolosa e fuorviante. I problemi strutturali che erodono la democrazia americana – dal sistema elettorale truccato alla polarizzazione sociale e politica, alimentata dai social media – non sono scomparsi.
La lotta per mantenere una democrazia autentica negli Stati Uniti non si limita a una sola elezione. La sfida per il futuro non riguarda solo la figura di Trump, ma anche le forze politiche che lo supportano e la capacità di contrastare la disinformazione e l'erosione della fiducia nelle istituzioni. Questo problema non riguarda solo gli Stati Uniti, ma tocca anche la stabilità globale. Se Trump ritorna, non solo gli Stati Uniti rischiano di diventare una democrazia corrotta, ma l'intero equilibrio geopolitico mondiale potrebbe essere sconvolto. Per l'Australia e per tutte le nazioni che dipendono dall'alleanza con gli Stati Uniti, è imperativo prepararsi a scenari che, purtroppo, non sono più così impensabili come un tempo.
È fondamentale che gli Stati Uniti, e con loro i loro alleati, comprendano la gravità della situazione e agiscano di conseguenza. Non ci si può più permettere di ignorare la possibilità che il sistema democratico venga distrutto dall'interno. È essenziale che le nazioni che ancora credono nei valori della libertà, della democrazia e dei diritti umani si preparino ad affrontare un mondo in cui gli Stati Uniti potrebbero non rappresentare più quel faro di speranza e di stabilità che sono stati per decenni.
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