Nietzsche, nell’esaminare la morale europea, si scaglia contro una visione cosmopolita che sembra svuotare l’individuo di ogni legame culturale o nazionale, riducendolo a una pura entità universale. Per Nietzsche, la fede che egli attacca qui non è tanto la fede cristiana in sé, quanto la sua evoluzione in una morale cosmopolita che, pur proclamandosi liberatrice, riduce l'individuo a un "cittadino del mondo" privo di radici storiche e culturali. Questo cosmopolitismo, distante da ogni legame con la tradizione e la cultura di un popolo, diventa un’astrazione che non serve a nutrire la vitalità e la fioritura delle culture locali.

Nel contesto della critica alla moralità europea, Nietzsche suggerisce che il superamento del cristianesimo non è sufficiente per ottenere la vera libertà dalle tradizioni morali che ancora dominano il vecchio continente. La semplice secolarizzazione della fede cristiana, ovvero il passaggio al razionalismo dell’Illuminismo, non basta. Occorre andare oltre la morale cristiana, per liberarsi dalle sue catene invisibili, e abbracciare una nuova forma di pensiero che non si basi su principi universali, ma sulla ricerca della fioritura e del benessere specifico di un popolo, che nasce da un singolare legame con la propria storia e cultura.

I "buoni europei" che Nietzsche considera modelli di questa nuova forma di pensiero sono artisti e filosofi come Goethe, Beethoven, Stendhal, Nietzsche stesso, Schopenhauer, Heine e Wagner, la cui grandezza travalica i confini nazionali e si erge come un fenomeno europeo. La loro capacità di combinare la leggerezza dell'artista con la severità della scienza rappresenta, per Nietzsche, un ideale a cui aspirare: un "gioioso scienziato" che possa operare al di là dei limiti imposti dalle morali e dalle politiche contemporanee.

Nonostante Nietzsche respinga il cosmopolitismo e l'attaccamento nazionalista come basi per la politica futura, egli non esclude la possibilità di un conflitto tra le culture, né una politica che possa accogliere il principio di diversità senza cercare di appiattirla sotto principi universali. Qui entra in gioco il concetto di "agonismo" che Nietzsche propone come chiave per la politica futura. L’agonismo, inteso come una forma di conflitto rispettoso, riconosce e accoglie le differenze culturali e identitarie senza tentare di uniformarle a un unico principio universale.

L’agonismo implica una relazione di confronto, non di consenso, tra le diverse tradizioni e culture. Ogni cultura o popolo, nel suo particolare, deve essere rispettato per ciò che è, ma questo rispetto non implica l’annullamento della conflittualità, che è intrinseca alla differenza. Nietzsche suggerisce che l’ospitalità autentica possa esistere solo nella misura in cui c'è una genuina differenza tra le persone, un riconoscimento che ciò che è veramente diverso non deve essere compreso o assimilato, ma rispettato. Tale differenza può, inevitabilmente, dar luogo a conflitti, ma il conflitto stesso diventa il motore della vita politica, piuttosto che un ostacolo da superare.

Il pensiero di Nietzsche sulla politica, quindi, non mira a una risoluzione finale dei conflitti tra popoli o culture, ma piuttosto a un’accettazione della pluralità che emerga dalla lotta e dalla competizione di valori. In questo senso, la vera ospitalità che Nietzsche immagina non è una forma di accoglienza pacifica e indiscriminata, ma una forma di ospitalità che riconosce la possibilità di ostilità tra le differenze. La "ospitalità ostile" è il concetto che emerge dal pensiero nietzschiano, dove la differenza non è assimilata ma preservata e, allo stesso tempo, rispettata come una forza vitale che stimola la continua competizione e rielaborazione dei valori.

Inoltre, Nietzsche non propone una politica cosmopolita che unisca tutti sotto il banner della "libertà universale" o dei diritti umani, ma una politica che riconosca la possibilità di una fioritura culturale autentica solo se legata a principi e valori specifici. Il futuro della politica europea, secondo Nietzsche, non può essere costruito su una base di valori universali che annullano le specificità culturali, ma piuttosto su una politica che rispetti la diversità culturale, accettando che essa possa portare a conflitti irrisolvibili. Il futuro europeo, dunque, deve fondarsi sulla lotta per la propria identità, in un contesto di ospitalità e contesa che non cerca di omogeneizzare le differenze, ma le valorizza e le lascia coesistere in un eterno conflitto produttivo.

Qual è il salto necessario per accedere alla verità dell’essere?

L’educazione che prepara al salto verso l’essere non si configura come un semplice sapere o una trasmissione di contenuti, bensì come una disposizione d’animo, una preparazione preliminare che apre il pensiero a ciò che eccede ogni forma di rappresentazione concettuale. Si tratta di una sorta di “educazione liberale” in senso radicale, orientata non alla formazione di un’intelligenza funzionale ma alla dischiusura di un’esperienza fondante: quella dell’essere stesso. Questo salto — il Sprung heideggeriano — non è un atto deliberato dell’uomo, ma un evento che si origina dall’essere, che si concede nell’atto stesso della fondazione.

La fondazione qui non ha il carattere di un’impresa tecnica o razionale, ma si rivela come l’origine della verità dell’essere nell’esserci (Da-sein). L’uomo, nella sua storicità più propria, si mostra come il luogo in cui l’essere si fa evento, ma soltanto a condizione che egli sappia abitare l’interrogazione come apertura essenziale. I pochi che verranno — die wenigen, die kommen — sono coloro che custodiscono questa verità nel risuonare profondo del “dio ultimo”, figura enigmatica della possibilità estrema di un’altra fondazione.

In questo quadro si delinea una netta distinzione tra due orientamenti fondamentali del pensiero filosofico: la Leitfrage e la Grundfrage. La prima — la domanda guida — struttura il pensiero occidentale da Platone a Nietzsche, e si fonda sulla domanda “che cos’è?” che interroga l’ente nella sua apparenza fenomenica. Essa produce le categorie della modernità: forma e ombra, valore e fatto, spirito e materia. L’episteme moderna è l’esito di questa distinzione. La Grundfrage, invece, interroga il fondamento stesso: è la domanda sull’essere che non cerca un contenuto ma un’apertura, un’intonazione storica in accordo con il destino dell’essere.

Heidegger chiama “differenza esistenziale” la frattura tra chi si aggira nella perennità del pensiero metafisico e chi, invece, si lascia attraversare dal pensare storico dell’essere. Solo quest’ultimo accoglie il rischio e la necessità del salto: un salto che fonda, un salto che dischiude. Tale fondazione non è un atto volontario ma un’assegnazione dell’essere stesso, un gioco originario tra il primo e l’altro inizio. Il pensiero dell’essere si realizza allora come Spiel, come gioco educativo che si dispiega nel silenzio dell’essere abbandonato e nella sua necessità più essenziale.

Il compito storico dell’esserci diventa allora quello di riportare l’ente nella verità dell’essere, di salvare ciò che è dalla dimenticanza del fondamento. Questo non è un semplice ripensamento ma un atto poietico, un creare nel pensare, in cui il sapere diventa un gesto originario. Solo colui che si espone al vuoto della domanda sull’essere può preparare il salto che trasforma il pensiero da conoscenza rappresentativa a fondazione dell’apertura.

In questo senso, il pensatore a venire non è un dotto né un tecnico del sapere, ma una figura solitaria, simile a Hölderlin, a Nietzsche, a Rousseau — individui che, nella loro irriducibile singolarità, hanno interrogato il tempo nella sua struttura più intima. Questi pensatori non cercano risposte ma domande radicali, perché solo attraverso il patire della domanda (pathein mathein) si apre lo spazio per una fondazione autentica. Non è un sapere informativo, ma un sapere trasformativo, un metanoia che rovescia l’uomo nella misura dell’essere.

L’Ereignis, l’evento dell’appropriazione, accade solo quando il pensiero si dispone in un’attesa riservata, un’attesa che porta con sé il senso dello spavento, della meraviglia profonda, di una Scheu che prepara il terreno per la custodia dell’esserci. Non si tratta più di meraviglia nel senso antico del thaumazein, ma di un turbamento essenziale: il ritorno dal conforto dell’abitudine all’apertura inquietante dell’origine.

Il momento storico attuale si configura come un interregno, un vuoto tra la fine della metafisica e l’inizio ancora invisibile di una nuova epoca. La metafisica della rappresentazione ha esaurito la sua forza, e la domanda sull’essere — la Seinsfrage — rimane inascoltata. In questo vuoto, l’unico compito rimasto all’uomo è quello di prepararsi: prepararsi a quel pensatore capace di custodire l’apertura per ciò che è degno di essere domandato. Il fondamento di questa nuova epoca non può essere imposto ma solo atteso. Ed è in questa attesa che l’uomo, tornando alla propria essenza storica, può riscoprire la capacità di fondare nel pensare.

È in gioco qui una trasformazione fondamentale del sapere: dalla conoscenza oggettivante alla creazione disposizionale. Sapere come creare. Non nel senso prometeico della tecnica, ma come un lasciar emergere, un aprirsi all’evento del senso. Tale sapere è già un agire, è già un fondare. La differenza ontologica lascia spazio all’evento dell’essere come simultaneità temporale e spaziale, in cui l’uomo diventa misura solo nella misura in cui si espone alla domanda sull’essere.

È quindi necessario comprendere che il pensiero autentico non si accontenta di spiegare ciò che è, ma si assume la responsabilità di ciò che potrebbe es

Come Riconoscere e Rispettare la Diversità Culturale nella Società Contemporanea: Un Approccio Liberale e Comunitario

La concezione politica di una società deve essere in grado di conciliare diverse identità e concezioni morali. È necessario, prima di tutto, comprendere che ogni società, in particolare quelle liberali e comunitarie, si fonda su una varietà di principi che riflettono differenti visioni etiche e culturali. Secondo John Rawls, la politica deve essere in grado di astrarre da queste visioni particolari, ma allo stesso tempo rispettare e integrare i diritti e i valori di tutti i gruppi coinvolti, che siano individui o popoli.

La sfida centrale è quindi quella di trovare un equilibrio tra il rispetto per la diversità culturale e la necessità di una giustificazione universale che può essere accettata da tutti i membri di una società. La politica del “velo di ignoranza”, uno degli strumenti principali nel pensiero di Rawls, ci aiuta a capire come le leggi e le istituzioni debbano essere strutturate non solo per garantire l’uguaglianza tra i cittadini, ma anche per rispettare le varie dottrine e tradizioni che definiscono le identità individuali e collettive.

La diversità culturale non deve essere vista come una minaccia all’ordine pubblico o alla coesione sociale, ma come un elemento che arricchisce la società, conferendo valore a ogni gruppo e individuo. Ciò implica che la politica debba essere in grado di rispettare non solo i diritti degli individui, ma anche i diritti dei popoli intesi come entità morali. Ogni popolo, dunque, ha il diritto di autodeterminarsi e di esprimere la propria cultura, senza che questo diritto venga eroso dalla pressione di un’ideologia dominante.

Tuttavia, questo rispetto per le identità particolari non deve sfociare in un relativismo che neghi l’esistenza di diritti universali o che giustifichi abusi e ingiustizie in nome di una tradizione culturale. Il concetto di “ragione pubblica” di Rawls implica che le dottrine religiose, morali o politiche possano essere presenti nel discorso pubblico, ma devono essere giustificate tramite ragioni che possano essere condivise da tutti i membri della società, indipendentemente dalla loro appartenenza a una particolare visione del mondo. La presenza di dottrine particolari non deve mai diventare un pretesto per imporsi sugli altri o per opprimere le minoranze.

In una società liberale, il rispetto per le diversità culturali è strettamente legato alla protezione dei diritti umani fondamentali, che devono rimanere intoccabili. Questo non significa che la diversità culturale debba essere ridotta a un fatto puramente simbolico, ma che debba essere riconosciuta e rispettata come parte integrante dell’ordinamento giuridico e delle pratiche sociali. La questione centrale è quindi come gestire una società pluralista che, pur garantendo la libertà di ciascuno, sappia riconoscere il valore della comunità e della tradizione.

In un contesto internazionale, le società liberali e quelle comunitarie devono imparare a convivere senza cadere nella trappola del conflitto delle civiltà. La differenza tra le due non deve diventare un pretesto per conflitti irreconciliabili, ma piuttosto un’opportunità per sviluppare un dialogo che rispetti le specificità di ciascuna, senza però sacrificare i principi universali di giustizia. La religione, ad esempio, può avere un ruolo nel definire l’identità di un popolo, ma non può mai giustificare la negazione dei diritti umani o l’imposizione di una visione monolitica del mondo.

Una società che intende essere giusta e liberale deve affrontare il tema della secolarizzazione non come un aspetto neutrale, ma come una modalità per garantire che lo stato rispetti tutte le visioni religiose, senza privilegiare una rispetto alle altre. La laicità dello stato non implica necessariamente la separazione totale della religione dalla politica, ma piuttosto una gestione equa di tutte le credenze. L’obiettivo deve essere quello di creare una società in cui tutti possano praticare liberamente la propria religione, senza che nessuna fede religiosa venga imposta o privilegiata dallo stato.

Una società secolare può essere intesa in diversi modi. Può adottare una posizione di neutralità in cui lo stato non favorisce nessuna religione o, al contrario, può supportare tutte le religioni presenti nel suo territorio. Ciò potrebbe includere il finanziamento delle scuole religiose o l’organizzazione di eventi pubblici che riflettano la diversità religiosa della popolazione. La chiave, tuttavia, sta nel fatto che ogni pratica religiosa deve essere rispettata e che le persone devono avere la libertà di scegliere, senza discriminazioni, come praticare o non praticare la propria fede.

Immaginiamo una società in cui i principi religiosi sono presenti nella costituzione e le politiche pubbliche riflettono i valori religiosi della maggioranza. Sebbene tale società possa sembrare illiberale, se garantisce la possibilità di derogare da pratiche religiose obbligatorie, se promuove l’istruzione pluralista e se consente ai gruppi religiosi minoritari di prosperare, può comunque essere considerata una società rispettosa della diversità e della libertà. La vera misura di una società libera e pluralista non sta nella separazione totale della religione dalla politica, ma nella sua capacità di garantire a tutti i cittadini la libertà di scegliere, praticare e discutere le proprie convinzioni religiose.

È fondamentale che ogni società moderna, che sia liberale o comunitaria, non dimentichi l'importanza di rispettare e includere le identità culturali e religiose nel suo ordinamento giuridico e nelle sue politiche. Solo così si può sperare di superare le divisioni e costruire una convivenza pacifica tra diverse tradizioni e visioni del mondo. Non è sufficiente accettare la diversità; bisogna celebrarla come una risorsa che arricchisce la società e la rende più forte.

Quali principi democratici stabiliscono i confini della partecipazione politica?

Il problema del confine democratico è un tema fondamentale nel pensiero politico contemporaneo, in quanto solleva interrogativi cruciali riguardo alla legittimità e alla giustizia delle inclusioni ed esclusioni politiche. In generale, le soluzioni proposte per il problema dei confini democratici si dividono in due categorie principali: principi esternalisti e principi internalsiti. I principi esternalisti tendono a determinare i confini democratici sulla base di fattori che sono esterni al processo decisionale democratico, come la nazionalità o le caratteristiche culturali. Questi principi, tuttavia, si rivelano spesso problematici, poiché tendono a escludere ingiustamente individui che, seppur non appartenenti formalmente a un determinato gruppo, sono ugualmente sottoposti agli effetti delle decisioni politiche di quel gruppo. In contrasto, i principi internalsiti si concentrano sul legame diretto tra l'individuo e il sistema politico, cercando di stabilire i confini sulla base di un coinvolgimento diretto nel processo democratico.

In un contesto democratico, la domanda centrale è come e perché determinare chi abbia diritto di partecipare al processo decisionale. I principi non strumentali, che privilegiano l'inclusione per ragioni morali o giuridiche, si trovano in una posizione privilegiata, rispetto ad altre visioni che trattano la democrazia come uno strumento per raggiungere determinati fini. Questi principi si concentrano sull'importanza intrinseca della partecipazione politica e sulla necessità di evitare l'esclusione di individui o gruppi che, pur non essendo direttamente coinvolti nelle decisioni politiche, sono comunque influenzati dalle loro conseguenze. La posizione di chi sostiene questi principi è che l'esclusione politica legittima non può essere giustificata esclusivamente da ragioni esterne come la nazionalità o la cultura, ma deve invece essere valutata attraverso la partecipazione effettiva al processo politico.

L'idea di un principio politico forte, come quello della “norma di arruolamento” che suggerisce di legare la partecipazione democratica alla semplice condizione di essere soggetti alle decisioni politiche di uno Stato, sembra risolvere alcuni dei problemi sollevati dai principi deboli. Infatti, i principi politici deboli, che basano l'inclusione democratica su legami contingenti, come il coinvolgimento causale nelle istituzioni politiche, rischiano di non stabilire un legame sufficiente tra il diritto alla partecipazione e l'effettiva capacità di incidere sulle decisioni politiche. In altre parole, se una persona è influenzata dalle istituzioni politiche, potrebbe comunque non avere il diritto di partecipare al loro funzionamento. Questo tipo di principi è vulnerabile al rimprovero che l'inclusione democratica non sia la soluzione migliore per garantire i diritti o l'autonomia degli individui, rispetto ad altre misure, come il trasferimento di ricchezza o la protezione giuridica.

Invece, i principi politici forti, che stabiliscono la legittimità della partecipazione sulla base della soggezione alle istituzioni politiche, sembrano evitare queste difficoltà. Questi principi non si limitano a connettere la partecipazione democratica a fattori causali contingenti, ma fanno riferimento alla condizione di essere soggetti a decisioni politiche collettive. Di conseguenza, l'esclusione di un individuo da questo processo è percepita come una violazione diretta dei suoi diritti, in quanto è la struttura stessa delle istituzioni politiche a legittimare la sua partecipazione. Pertanto, si sostiene che le soluzioni che fondano i confini democratici sui principi fortemente politici siano quelle che forniscono un legittimo fondamento per la partecipazione democratica.

Un altro aspetto che deve essere compreso è che il confine democratico non riguarda solo la determinazione di chi è incluso nel processo decisionale, ma anche la natura stessa del potere e della giustizia. L'autonomia personale, che è un valore fondamentale nelle democrazie moderne, può essere compromessa dalla condizione di soggezione a decisioni politiche che non tengono conto delle preferenze individuali. Per questo, il problema del confine democratico deve essere affrontato non solo in termini di inclusione, ma anche di giustizia distributiva e di libertà. In alcuni casi, la democrazia potrebbe non essere la forma di governo che meglio garantisce l'autonomia individuale, come nel caso di un'autocrazia costituzionale ben limitata che potrebbe, in teoria, risultare più favorevole a una maggiore libertà personale di quanto non faccia una democrazia caratterizzata da un’elevata instabilità politica.

Inoltre, è importante sottolineare che il problema del confine democratico non implica necessariamente che ogni individuo debba appartenere a una sola comunità politica. Potrebbero esistere situazioni in cui un individuo ha il diritto di partecipare a più di una comunità politica, e le soluzioni possibili devono tenere conto di questa pluralità di appartenenze. Le risposte al problema del confine democratico devono dunque essere flessibili e rispondere alle sfide pratiche di una società globalizzata, in cui i confini politici tradizionali sono sempre più sfumati. Nonostante le difficoltà di un'applicazione universale, l'idea che ogni decisione politica debba coinvolgere un demos ben definito resta una base di partenza fondamentale per risolvere il problema dei confini democratici.