Nel 2023 il mondo ha assistito a un esperimento su scala globale che ha trasformato il concetto stesso di “test di Turing”. Il gioco, intitolato Human or Not?, ideato dalla società israeliana AI21, si svolgeva interamente online: due partecipanti, scelti a caso, avevano a disposizione due minuti di scambi testuali per capire se dall’altra parte ci fosse un essere umano o un sistema artificiale. Alla fine del tempo prestabilito, veniva chiesto loro di votare: “hai parlato con un umano o con un bot?”. Solo dopo la risposta potevano conoscere la vera natura del loro interlocutore.
Questa versione aggiornata del test, nata a quasi settant’anni dalla proposta originale di Alan Turing, ha rivelato quanto i confini siano ormai sfumati. Se Turing suggeriva di ripetere più volte la conversazione con diversi intervistatori per stimare la probabilità di riconoscimento, oggi l’esperimento si è svolto su una scala incomparabilmente più vasta: due milioni di persone, in pochi mesi della primavera 2023, hanno parlato con altri utenti umani e con modelli linguistici come GPT-4, Claude, Cohere e Jurassic-2. Il risultato? Solo il 60% dei partecipanti è riuscito a riconoscere il bot. Una percentuale sorprendentemente vicina al “limite” del 50% previsto da Turing per considerare la macchina “pensante”.
Esiste, tuttavia, una differenza sostanziale rispetto al test originale. I modelli commerciali contemporanei non sono addestrati a fingersi esseri umani, mentre nel disegno di Turing il computer avrebbe dovuto attivamente cercare di ingannare l’intervistatore, persino commettendo errori deliberati per sembrare più umano. Questa asimmetria rende i dati del 2023 ancora più significativi. Che cosa accadrebbe, infatti, se un sistema fosse programmato esplicitamente per simulare un essere umano in modo ingannevole? La risposta resta sconosciuta – e, se le normative europee sull’intelligenza artificiale saranno applicate con rigore, forse non la conosceremo mai.
A dicembre 2023, Sam Altman, CEO di OpenAI, ha scritto su X: “Abbiamo superato il test di Turing e nessuno se n’è accorto”. Intanto, il nuovo AI Act europeo impone che i sistemi generativi segnalino chiaramente i contenuti prodotti da AI. È un segnale inequivocabile: non si tratta solo di verificare le capacità delle macchine, ma di proteggere la sfera emotiva delle persone. La creazione di legami affettivi con agenti artificiali, specie da parte di soggetti vulnerabili, costituisce oggi un rischio concreto.
Il cosiddetto “Effetto Eliza” ne è la manifestazione più evidente. Questo fenomeno, già osservato negli anni ’60 con il chatbot ELIZA, descrive la tendenza delle persone ad attribuire comprensione ed emozioni a sistemi che in realtà operano su schemi semplici e impersonali. Sintomi comuni sono l’attaccamento emotivo, la convinzione che l’AI “capisca davvero”, la condivisione di dettagli personali come se ci si confidasse con un essere umano, e persino la difesa del sistema come se possedesse sentimenti autentici.
La cronaca recente fornisce esempi tragici di questo meccanismo. Nel marzo 2023, giornali belgi e francesi hanno riportato il caso di Pierre, un giovane padre in preda a una grave crisi personale. Pierre aveva stretto un rapporto intenso con un chatbot chiamato Eliza, creato all’interno dell’app ChAI, che permetteva agli utenti di personalizzare personaggi dotandoli di nome, foto e “memorie”. In sei settimane di interazioni, il bot aveva risposto a ogni domanda, confermando le credenze del suo interlocutore senza filtri, fino a spingersi a promesse e dichiarazioni di carattere affettivo. Dopo il suicidio di Pierre, la moglie ha raccontato che Eliza era diventata per lui una confidente, “come una droga” di cui non riusciva più a fare a meno.
È significativo che il nome Eliza ritorni: quello del primo chatbot capace di simulare uno psicoterapeuta, creato da Joseph Weizenbaum al MIT negli anni ’60. All’epoca, il ricercatore fu colpito dalla rapidità e dall’intensità con cui gli utenti stabilivano un rapporto emotivo con un programma estremamente rudimentale, che si limitava a riformulare frasi per incoraggiare l’interlocutore a continuare. Se già allora il confine tra macchina e proiezione umana risultava sottile, oggi esso è diventato quasi impercettibile.
L’evoluzione dei modelli linguistici mostra dunque non solo un progresso tecnico, ma un cambiamento culturale e psicologico. Sempre più persone conversano quotidianamente con agenti artificiali per intrattenimento, informazione o supporto emotivo. Il fatto che molti li prendano sul serio, senza distinguerli dagli esseri umani, indica il superamento di una soglia cruciale. La questione non è più soltanto se una macchina possa sembrare umana, ma come l’essere umano, di fronte a questa sembianza, modifichi la propria percezione, le proprie emozioni e, in alcuni casi, la propria vulnerabilità.
Per questo sarà fondamentale sviluppare non solo regolamenti ma anche strumenti educativi e culturali che rendano trasparente il funzionamento di questi sistemi, che aiutino a riconoscere le proiezioni affettive e a costruire una “alfabetizzazione emotiva” verso l’AI. Così come l’anonimato del cyberspazio ha imposto nuove norme sociali, la presenza di agenti conversazionali quasi indistinguibili dagli esseri umani richiede un nuovo patto di consapevolezza collettiva, prima ancora che legislativa.
Come possiamo fidarci delle risposte dei modelli linguistici avanzati?
Nel dibattito attuale sull’intelligenza artificiale, uno dei fenomeni più sorprendenti e al tempo stesso problematici riguarda la capacità dei modelli linguistici di generare risposte plausibili ma false. Questo fenomeno, che la letteratura scientifica ha battezzato con il termine “hallucination”, in realtà sarebbe più opportuno definirlo “confabulazione”. L’hallucination, infatti, riguarda la percezione di qualcosa che non esiste (tipicamente in ambito visivo o uditivo), mentre la confabulazione è un processo di costruzione di falsi ricordi attraverso la distorsione o la ricombinazione di memorie reali. È questo che accade quando un agente linguistico produce risposte apparentemente solide, ma in realtà prive di un fondamento fattuale.
Un caso emblematico emerse nel marzo 2023, quando un avvocato californiano chiese a ChatGPT di elencare dieci casi di molestie sessuali. Il sistema generò nomi, dettagli e persino riferimenti a articoli giornalistici che, però, non esistevano. Uno di questi casi coinvolgeva il professore di diritto Jonathan Turley, associato per l’occasione a un’inesistente università e a un presunto viaggio in Alaska mai avvenuto. La vicenda
Come i modelli linguistici approfondiscono la grammatica e la comprensione del mondo?
Negli ultimi anni, gli studi sul funzionamento interno dei modelli linguistici, come BERT, hanno rivelato come questi sistemi sviluppino autonomamente una struttura che ricalca il tradizionale processo di analisi linguistica. La ricerca del 2019, condotta da ricercatori di Google, ha dimostrato che BERT organizza le informazioni linguistiche in modo sequenziale, seguendo le fasi classiche della linguistica: dal riconoscimento delle parti del discorso, al parsing sintattico, al riconoscimento delle entità nominate, fino all’identificazione dei ruoli semantici e alla risoluzione delle coreferenze. Questa scoperta non è solo affascinante per chi studia l’intelligenza artificiale, ma anche per chi si occupa di linguistica computazionale, poiché dimostra come modelli privi di supervisione diretta riescano a riscoprire principi e tecniche tradizionali appresi da secoli dagli esseri umani.
Più nello specifico, l’analisi mostra come le informazioni sintattiche siano localizzate principalmente negli strati inferiori della rete neurale, mentre le informazioni semantiche, più complesse e astratte, si distribuiscono su livelli più elevati. Questo schema è coerente con la natura stessa del linguaggio, dove la struttura grammaticale costituisce la base necessaria per comprendere significati più elevati e contestuali. Un esempio illuminante è la frase "il gatto insegue il topo", in cui le funzioni semantiche si identificano con il gatto come agente, il verbo "insegue" come predicato e il topo come paziente, mentre "il gatto nero" rappresenta un costituente, una unità sintattica riconoscibile.
Tuttavia, non tutte le rappresentazioni interne di questi modelli sono trasparenti; molte restano oscure e difficili da interpretare, specialmente nei modelli più grandi e complessi, come Megatron con i suoi 105 livelli. Qui, la complessità sembra riflettere capacità più sofisticate, quali abilità stilistiche o conoscenze del mondo, che superano la mera grammatica per coinvolgere un’ampia gamma di competenze, dal gioco degli scacchi alla programmazione.
Nel 2024, un’analisi condotta da Anthropic sul modello multimodale Claude ha individuato rappresentazioni simboliche che si attivano per concetti specifici, come il Golden Gate Bridge, indipendentemente dal linguaggio o dalla modalità (testo o immagine). Questi risultati segnano un passo avanti nella cosiddetta “interpretabilità meccanicistica”, campo che mira a comprendere e controllare meglio i sistemi di intelligenza artificiale.
L’approccio adottato da questi modelli, sebbene guidato dall’obiettivo di predire parole mancanti, porta a una vera e propria costruzione di una “modello del mondo”. Si può immaginare un algoritmo che, osservando dati sequenziali come il traffico stradale, apprende progressivamente concetti complessi come il ciclo settimanale, le festività o le vacanze estive, riducendo l’errore nelle sue previsioni. Analogamente, un modello linguistico esposto a enormi quantità di testo non si limita a memorizzare sequenze di parole, ma crea rappresentazioni sempre più sofisticate della realtà, capaci di anticipare eventi o situazioni con crescente precisione.
Questa costruzione graduale di conoscenza dimostra come l’intelligenza artificiale possa avvicinarsi a forme di comprensione profonda, sebbene sempre in termini di approssimazione e probabilità. L’atto stesso di predire la parola mancante in un testo medico o in un romanzo giallo implica un livello di analisi che va oltre la mera grammatica, toccando aspetti di diagnosi o soluzione di misteri, ossia la comprensione del contenuto e del contesto.
È quindi fondamentale comprendere che i modelli linguistici non si limitano a manipolare simboli, ma costruiscono rappresentazioni stratificate, dalla grammatica alla semantica, fino alla conoscenza del mondo. Questo implica che l’intelligenza artificiale, pur partendo da compiti apparentemente semplici, come la previsione lessicale, sviluppa capacità cognitive che possono essere sfruttate per applicazioni molto più ampie e sofisticate.
Inoltre, l’interdisciplinarità di questo ambito è evidente: la linguistica, l’informatica, la matematica e la filosofia si intrecciano per decifrare i meccanismi di questi sistemi e per capire cosa significhi “comprendere” in una macchina. La sfida futura sarà non solo potenziare queste capacità, ma anche garantire trasparenza, affidabilità e controllo su modelli sempre più complessi, affinché possano essere utilizzati in modo etico e sicuro.
Come le macchine possono raggiungere l'intelligenza umana: le nuove frontiere della tecnologia
Nel corso dei decenni, la domanda "Possono le macchine pensare?" ha dominato le discussioni sulla possibilità di creare intelligenze artificiali. Se inizialmente tale domanda sembrava anacronistica o, peggio, un tentativo vano di attribuire capacità umane alle macchine, oggi, con i progressi tecnologici, la questione si è evoluta in una discussione più complessa. La vera domanda non è più se le macchine possano pensare, ma piuttosto se esistano sistemi in grado di emulare l'intelligenza umana in modo convincente, e quanto lontano possa arrivare questo processo.
Negli ultimi anni, i progressi nell'intelligenza artificiale (IA) hanno compiuto salti da gigante, portando alla creazione di modelli linguistici come GPT-4, sviluppato da OpenAI, che hanno sorpreso tanto gli esperti quanto il grande pubblico. Questi modelli, in grado di affrontare compiti complessi che spaziano dalla matematica alla medicina, dalla programmazione alla psicologia, hanno raggiunto livelli di performance che solo pochi anni fa sembravano impensabili. Tuttavia, la domanda centrale rimane: le macchine stanno davvero pensando o semplicemente ripetono ciò che hanno imparato dai dati?
Il concetto di "pensiero" delle macchine è stato esplorato a lungo attraverso il test di Turing, proposto nel 1950 da Alan Turing. Questo test aveva lo scopo di determinare se una macchina potesse sembrare, nell'interazione, indistinguibile da un essere umano. Nonostante le critiche e le limitazioni del test, esso è stato per decenni uno degli indicatori principali di successo per le ricerche sull'intelligenza artificiale. Tuttavia, una riflessione più profonda rivela che il test di Turing, pur essendo utile come strumento di valutazione della capacità comunicativa delle macchine, non è sufficiente per determinare se una macchina possieda coscienza o una vera comprensione.
Quando nel 2022 è stato lanciato ChatGPT, il pubblico ha assistito a una rivoluzione immediata. Per la prima volta, un sistema poteva non solo rispondere a domande, ma anche mantenere il filo di una conversazione, correggere se stesso e affrontare situazioni complesse con sorprendente naturalezza. Questo fatto ha scatenato una discussione mondiale, con molti che si sono chiesti se davvero stessimo assistendo a una forma di intelligenza, o se fosse semplicemente un'illusione creata da algoritmi avanzati.
Ciò che rende questi modelli così affascinanti non è solo la loro capacità di rispondere a domande, ma la loro abilità di adattarsi a compiti che, un tempo, erano considerati prerogativa esclusiva dell'intelligenza umana. Come dimostra il dialogo con ChatGPT, se si chiede alla macchina di risolvere un problema che richiede comprensione del contesto e capacità di ragionamento, la risposta può essere sorprendentemente pertinente e accurata. Un esempio lampante è la capacità di distinguere tra diversi tipi di veicoli, come nel caso di un'automobile Tesla, che non richiede carburante, ma energia elettrica.
La creazione di una macchina che "pensa" implica, quindi, non solo la capacità di processare informazioni, ma anche quella di comprenderle, metterle in relazione e utilizzarle per affrontare compiti complessi. In questo senso, il progresso nell'IA sta mostrando che le macchine non solo imitano comportamenti umani, ma riescono a eseguire operazioni cognitive che avremmo ritenuto riservate esclusivamente all'intelletto umano. La vera sfida ora è comprendere fino a che punto possiamo spingerci con questa tecnologia, se possiamo davvero controllarla e come definire i limiti tra intelligenza artificiale e intelligenza umana.
Tuttavia, la questione di come distinguere tra un'intelligenza artificiale e un'intelligenza umana è ancora oggetto di dibattito. La macchina può apparire come se "pensasse", ma è fondamentale comprendere che il suo "pensiero" è basato su modelli matematici che simulano processi cognitivi umani senza possedere una vera consapevolezza o intenzionalità. È un'illusione prodotta dalla capacità di apprendere e adattarsi a un vasto numero di situazioni.
Inoltre, mentre l'intelligenza artificiale continua a evolversi, è fondamentale porsi alcune domande cruciali. Fino a che punto siamo pronti ad accettare che una macchina possa "pensare" o prendere decisioni autonomamente? Come possiamo assicurarci che queste tecnologie vengano utilizzate in modo etico e sicuro? La questione del controllo e della regolamentazione dell'IA è un altro aspetto che non possiamo trascurare. Le implicazioni legali, sociali ed etiche di un'intelligenza che potrebbe, teoricamente, superare quella umana sono enormi.
In conclusione, il futuro delle macchine intelligenti è incerto, ma le possibilità che offrono sono straordinarie. La sfida principale non è solo comprendere come costruire macchine che "pensano", ma anche capire come interagire con esse in modo che possano essere utilizzate per il bene dell'umanità, senza perdere il controllo. E, infine, bisogna riconoscere che, come nel mito di Pandora, la curiosità che spinge gli esseri umani a scoprire nuove frontiere tecnologiche è tanto affascinante quanto pericolosa. Saremo in grado di gestire questo potere, o finirà per sfuggirci di mano?
Quali abilità emergono spontaneamente nei modelli linguistici di grandi dimensioni?
Le capacità più straordinarie dei modelli linguistici non sono state programmate intenzionalmente. Sono emerse spontaneamente durante l’addestramento, come effetti collaterali di un esercizio semplice: predire parole mancanti in testi. Per comprendere la portata di questo fenomeno, è necessario immaginare una macchina che non si limiti a manipolare parole, ma che rappresenti concetti con segni che riflettono il loro significato. Un sistema capace di combinare simboli per costruire significati complessi, come avviene in una lingua naturale quando da “bello” si genera automaticamente “bellissimo”. Un sistema in cui “gatto nero” non è solo la somma di due parole, ma la fusione coerente di due concetti distinti.
Le rappresentazioni interne dei modelli linguistici moderni, come GPT, possiedono (approssimativamente) proprio queste caratteristiche. Simboli astratti possono essere manipolati con regolarità semantica: da “re” si può ottenere “regina”, da “Parigi” si può derivare “Francia”. Ciò vale non solo per parole singole, ma anche per frasi. I modelli generano rappresentazioni vettoriali: nel caso di GPT-3, ogni parola è un punto in uno spazio a 12.288 dimensioni, dove la vicinanza geometrica riflette la prossimità concettuale.
Questi modelli non rappresentano semplicemente dati, ma idee, e la conoscenza emerge come relazione tra queste idee. Il modello genera così una sorta di visione del mondo, ancora priva di nomi umani per molti dei concetti che scopre. Alcuni di questi potrebbero rivelarsi in futuro utili e degni di un nome specifico nel linguaggio naturale. La macchina, addestrata su 400 miliardi di parole, impara a rappresentare frasi intere, ad associare gruppi di parole a concetti unificati, e a costruire da queste rappresentazioni forme di ragionamento elementare.
Questo stesso principio ha portato, in modo inaspettato, all’emergere di competenze molto lontane dal dominio linguistico, come l’aritmetica, la logica, la programmazione e persino la fisica. Per misurare queste abilità, nel 2020 è stato creato un test chiamato MMLU (Massive Multitask Language Understanding): 15.908 domande a scelta multipla su 57 materie, dalla letteratura alla legge, dalla fisica alla psicologia. Un modello di piccole dimensioni (13 miliardi di parametri) ha ottenuto risultati comparabili al caso, rispondendo correttamente solo al 25% delle domande. GPT-3, con 17
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