La costruzione di un nemico interno è una tecnica politica che trasforma differenze sociali in pericoli esistenziali: gruppi religiosi, migranti, afroamericani, o l'élite culturale diventano figure simboliche di una minaccia che pretende di mettere in pericolo la continuità stessa della nazione. Quando l'apparato statale e i suoi consiglieri intellettuali adottano questa mappa interpretativa, le misure restrittive — dalla revoca della cittadinanza all'espulsione, dalla detenzione amministrativa alla separazione forzata delle famiglie — non appaiono come eccezioni punitive ma come strumenti di protezione collettiva. È una trasposizione performativa: pratiche giuridiche e retoriche si legittimano a vicenda trasformando presunti atti di fedeltà religiosa o comportamenti di protesta civile in «prove» di slealtà verso la Costituzione e l'ordine pubblico.
Lo schema è riconoscibile e ripetuto. La retorica securitaria costruisce una sovrapposizione tra nemico esterno e «quinta colonna» interna: chi professa una fede, chi attraversa i confini per cercare protezione, chi reclama diritti civili, può essere ricondotto all'orbita di forze ostili transnazionali. Questo slittamento permette politiche draconiane presentate come necessarie per la sopravvivenza della collettività — e contemporaneamente polarizza la società, legando una parte della «base» popolare a interessi di potere che traggono vantaggio dall'esistenza stessa della minaccia. La retorica del «noi» puro contro «loro» impone una lettura etnica e culturale della cittadinanza, dove l'appartenenza è condizionata da conformità simbolica più che da diritti giuridici.
Gli esempi pratici mostrano la brutalità di questa logica: la separazione di genitori e figli, la detenzione di minori in strutture deprivate, le campagne di disinformazione che sviliscono la presunzione d'innocenza, l'uso di accuse infondate per delegittimare intere comunità. L'effetto è duplice: disumanizzazione del soggetto indicato e mobilitazione emotiva di un'ampia fascia dell'elettorato, che percepisce la decisione come difesa dalla corrosione culturale e dalla perdita di sicurezza. Inoltre, l'uso del simbolo nazionale — l'inno, la bandiera, i cerimoniali — diventa strumento di punizione morale: la critica o la protesta non è più un atto politico ma un segno di disaffiliazione nazionale.
Questo processo non è privo di continuità storica: retoriche di esclusione si innestano su precedenti storici di razzismo istituzionale, nativismo e politiche migratorie securitarie. Ma la novità sta nella sistematicità con cui istituzioni e discorso pubblico operano insieme per rendere ammissibili pratiche altrimenti considerate abnormi dal diritto internazionale e dai principali standard di diritti umani. Quando la difesa della nazione diventa sinonimo di purificazione tribale, la democrazia si indebolisce non solo per le persone colpite ma perché si erode il terreno comune di cittadinanza civile.
È dunque essenziale leggere questi fenomeni attraverso una doppia lente: da un lato, l'analisi delle tecniche retoriche e giuridiche che convertono differenze in pericolo; dall'altro, la ricostruzione delle conseguenze materiali sulle vite quotidiane dei gruppi colpiti — perdita di diritti, trauma familiare, esclusione economica e delegittimazione politica. Solo così si coglie come la narrativa della sicurezza non sia neutra ma esito di scelte politiche che privilegiano una coalizione sociale a scapito della coesione e dell'eguaglianza.
Qual è la vera sicurezza globale per l'umanità? La questione della resistenza contro il capitalismo globale e il nazionalismo
Investire in settori cruciali come l'educazione, la salute, il lavoro, l'ambiente e tutti gli altri pilastri di una vera sicurezza significa unire i movimenti del lavoro e altre forze progressiste a livello globale, al fine di opporsi in modo efficace alle multinazionali che governano il pianeta per il loro esclusivo interesse. Solo attraverso la resistenza universale è possibile universalizzare i diritti, raggiungendo una sicurezza autentica per tutti.
Le élite statunitensi perseguono un'economia globale orientata al profitto, ma abbracciano il nazionalismo come una narrazione di sicurezza perché risponde emotivamente alle necessità di sostenere il capitalismo stesso. In un mondo globale, con frontiere aperte e un ampio scambio di lavoratori tra diverse nazioni, il rischio che le classi più basse di ogni paese si uniscano contro l'ordine capitalista globale è percepito come una minaccia mortale per il sistema capitalista. Di conseguenza, il capitalismo ricorre al nazionalismo, raccontando storie sulla sicurezza nazionale, ma questa narrativa genera in realtà maggiore insicurezza al suo interno, creando nemici sia esterni che interni, che non devono mai scomparire. La paura e l'insicurezza diventano così parte integrante di questo sistema.
Il falso senso di sicurezza offerto dal nazionalismo, che inevitabilmente crea nemici infiniti e una profonda insicurezza, dimostra chiaramente che la vera sicurezza può sorgere solo in un mondo basato sulla cooperazione, sulla fiducia reciproca e su istituzioni di governance internazionali. L'unica sicurezza autentica, ora, è globale. Non sorprende, quindi, che la dichiarazione universale dei diritti umani dell'ONU rappresenti la forma più potente di questo concetto di sicurezza. Gli Stati Uniti hanno progettato l'ONU in modo tale che non possa effettivamente attuare questi diritti universali, ma con l'espansione della cultura globale e il riconoscimento delle necessità e dei diritti umani comuni, la struttura politica necessaria per raggiungerli si costruirà nel corso del XXI secolo.
Nonostante i tentativi di mantenere un sistema basato sulle nazioni e sulla sicurezza nazionale, se non abbandoniamo questo approccio, non potremo mai raggiungere una vera sicurezza e probabilmente ci autodistruggeremo. La sfida è ardua, ma se non facciamo questo cambiamento, condanneremo noi stessi e le future generazioni all'oblio.
La sicurezza universale e autentica è ciò di cui abbiamo bisogno per salvare la civiltà e per trovare il benessere personale. Non possiamo permetterci di ignorare la necessità di cambiare questa struttura sociale che genera insicurezza infinita. È difficile, ma non provare significherebbe condannare noi stessi e i nostri discendenti a un destino disastroso. È possibile fare meglio!
Importante è anche comprendere che la vera sicurezza non è solo una questione economica, ma anche una questione di giustizia sociale, di uguaglianza e di diritti umani fondamentali. Ogni passo verso la costruzione di un mondo più equo e sicuro richiede una visione condivisa di cooperazione internazionale, che non solo affronti le disuguaglianze economiche, ma anche le ingiustizie politiche e sociali che sono alla base della continua insicurezza a livello globale. Solo un impegno collettivo per una governance globale più equa, che trascenda i confini nazionali e le logiche di profitto, potrà finalmente garantire un futuro sicuro per tutti.
In che modo la politica di Donald Trump riflette una nuova forma di conflitto sociale e ideologico negli Stati Uniti?
Donald Trump, una delle figure politiche più controverse e divisive degli Stati Uniti, ha suscitato forti reazioni tra i sostenitori e i detrattori, portando a una polarizzazione sempre più profonda nel panorama politico americano. Non è solo un individuo che ha guidato una campagna presidenziale, ma un simbolo di una trasformazione nei modi di pensare, di comunicare e di interagire con le istituzioni politiche. La retorica di Trump si è spesso caratterizzata per l’uso di frasi che dividevano chiaramente la società in “noi” e “loro”, mettendo in luce una logica di scontro che sembrava riflettere una sorta di guerra culturale in atto.
Quando Trump definisce “deplorabili” molti dei suoi oppositori, inclusi i sostenitori della sua avversaria Hillary Clinton, ha fatto emergere un’idea della politica come battaglia morale, piuttosto che come processo di compromesso e dialogo. È un linguaggio che non cerca tanto la persuasione quanto la consolidazione di una base elettorale che si sente vittima di un'elite politico-economica, percepita come distante dalle reali esigenze della popolazione. In questo senso, la sua retorica rappresenta una reazione a una percepita disconnessione tra il popolo e le istituzioni tradizionali, alimentando sentimenti di rabbia e di frustrazione.
Le sue dichiarazioni, spesso radicali, su temi come l’immigrazione, la criminalità e la religione, sono diventate il cuore pulsante della sua politica, in grado di mobilitare un’ampia fetta dell’elettorato, pur suscitando l’opposizione di molti altri. Nel 2016, la sua affermazione sulla “gente del MS-13” come “animali” ha sollevato un dibattito sulla criminalizzazione di interi gruppi di persone sulla base di appartenenze etniche o sociali. In questo contesto, la sua retorica non è solo una forma di leadership, ma un elemento che alimenta il conflitto sociale, promuovendo una visione dell’America in cui le differenze non si compongono ma si esasperano.
Questo nuovo conflitto ideologico trova un ulteriore terreno di alimentazione nella cultura del “winner takes all” che Trump incarna e promuove. La sua visione del mondo si basa su un'interpretazione estrema della libertà individuale, che non ammette mezze misure: chi vince ha diritto a tutto, chi perde non merita neanche attenzione. Questo approccio trova un parallelo nel capitalismo selvaggio che spinge all’estremo la concorrenza e la lotta per il potere, enfatizzando il principio del successo come unica misura di valore.
Trump ha altresì fatto affidamento su temi che un tempo erano considerati marginali, come la religione e la moralità, per radicare ancora più profondamente il suo messaggio. La sua affermazione che Dio possa aver scelto la sua leadership non è solo una manifestazione di fede, ma una forma di legittimazione del suo potere. Sostenitori religiosi, in particolare tra gli evangelici, hanno visto in Trump una sorta di salvatore che rappresenta la difesa dei valori tradizionali contro l’avanzata di una cultura secolarizzata.
Ma oltre alla superficie di queste dichiarazioni, vi è una dimensione più profonda che riguarda la trasformazione della politica in un campo di battaglia ideologico. Trump ha saputo manipolare abilmente le paure e i desideri di una parte significativa della popolazione, dipingendo un mondo in cui la lotta tra bene e male non è solo metaforica, ma reale e quotidiana. Ha fatto dell’America un campo di battaglia in cui la vittoria non è solo politica, ma anche culturale e sociale.
Inoltre, è essenziale notare che, sebbene Trump sia stato il catalizzatore di una serie di movimenti, il suo impatto va ben oltre la sua figura personale. La sua presidenza ha messo in luce le fragilità di un sistema che, per quanto considerato uno dei più stabili del mondo, ha visto crescere al suo interno tensioni che erano state fino ad allora sottovalutate. La disconnessione tra l’élite politica e una parte significativa della popolazione è emersa con una forza travolgente, facendo capire a molti che le tradizionali forme di mediazione politica, come i partiti, non sono più sufficienti a rispondere alle sfide sociali ed economiche di un paese profondamente diviso.
La polarizzazione generata da Trump è un fenomeno che riguarda tutti, non solo gli Stati Uniti. È un segno di come le democrazie moderne stiano affrontando sfide crescenti, dove la retorica della divisione può trasformarsi in una forza tanto potente da cambiare non solo la politica, ma anche il tessuto sociale. Quando si analizzano le sue azioni e parole, è necessario tener presente che ciò che conta non sono solo le politiche messe in atto, ma anche il contesto sociale e culturale che esse riflettono e alimentano. La vera domanda è se questa crescente divisione sociale e ideologica sia destinata a risolversi o se diventerà la nuova norma in molte democrazie occidentali.
Come la disuguaglianza crescente modifica il concetto di "sogno americano" e la struttura sociale della casa metaforica
Nel corso degli ultimi decenni, la divisione tra le classi sociali, rappresentata dalla metafora della "casa upstairs/downstairs", ha preso una forma più marcata e profonda, con impatti significativi sulla coesione sociale e sulla meritocrazia. La casa ideale, che un tempo rappresentava un luogo dove le disuguaglianze tra la parte superiore (upstairs) e quella inferiore (downstairs) potevano essere colmate grazie a merito e mobilità sociale, oggi sta vivendo una frattura che minaccia la sua stessa struttura.
Le ampie scale che un tempo permettevano a chiunque avesse avuto le giuste capacità di salire, si stanno ora restringendo, riducendo di fatto le possibilità di ascesa per chi si trova "downstairs". In questo nuovo scenario, la meritocrazia, che promuoveva l'idea di un "sogno americano" accessibile a tutti, sembra essere sempre più un'illusione. L'idea che chiunque, con abbastanza impegno, possa salire verso una vita migliore, sta crollando sotto il peso di una disuguaglianza crescente e di un mercato del lavoro che premia sempre più pochi.
Il divario tra la condizione dell'élite economica upstairs e le difficoltà crescenti dei lavoratori downstairs non è mai stato così ampio. Questo divario non è solo una questione economica; è anche culturale e politica. La frattura si è accentuata a partire dagli anni '80, con la rivoluzione economica avviata dalla presidenza Reagan, che ha accelerato l'adozione di politiche neoliberiste, ridotto le imposte sui ricchi e favorito la globalizzazione, a scapito dei lavoratori. La crescente concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi ha portato a uno spostamento delle fortune, con il ceto più abbiente che ha visto aumentare il proprio benessere, mentre la classe media e i lavoratori hanno visto stagnare i loro redditi e diminuire le opportunità di miglioramento.
Le disuguaglianze, alimentate da un sistema economico che favorisce l'accumulazione di ricchezza da parte dei vertici aziendali, sono visibili in modo clamoroso nel divario salariale tra i CEO e i lavoratori medi. In alcune delle principali aziende americane, i CEO guadagnano centinaia di volte di più rispetto ai loro dipendenti. I dati sono scioccanti: in media, il CEO di una grande azienda guadagna 339 volte quanto guadagna il lavoratore medio. Alcuni CEO arrivano a guadagnare cifre che superano le migliaia di volte il reddito di un dipendente comune, creando un abisso che sembra insormontabile.
Questo divario salariale e sociale non è solo un fenomeno isolato. È il riflesso di un cambiamento strutturale che ha trasformato il capitalismo moderno in un sistema sempre più estraneo alle esigenze delle persone comuni. Le politiche economiche che hanno favorito il 1% più ricco, con il sostegno di politiche fiscali che riducono drasticamente le imposte sulle imprese e sugli individui più ricchi, hanno creato un circolo vizioso che ha reso la mobilità sociale sempre più difficile. L'ideale di meritocrazia, che promuoveva la possibilità di una vita migliore grazie al proprio impegno, è ora compromesso da un sistema che, pur mantenendo formalmente il concetto di "opportunità", ne ha ridotto drasticamente la portata.
Questa crescente disuguaglianza ha avuto effetti anche sul piano politico e culturale. Il malcontento della classe operaia bianca, che ha visto la propria condizione economica e culturale peggiorare, ha alimentato il successo di movimenti populisti come il trumpismo. Donald Trump ha saputo intercettare il malessere di quelle persone che si sentivano abbandonate sia dal Partito Repubblicano che da quello Democratico, promettendo una rottura con l'establishment politico ed economico. Ma, purtroppo, la sua elezione non ha risolto il problema della disuguaglianza, anzi, lo ha esacerbato.
Anche il settore culturale e educativo ha contribuito a questa frattura. Negli anni '60, la classe lavoratrice ha subito una serie di cambiamenti che l'hanno allontanata dalle proprie radici economiche e culturali. I settori popolari sono stati progressivamente alienati dalla sinistra e dai professionisti, che, purtroppo, non sono riusciti a rispondere adeguatamente alle preoccupazioni economiche di queste persone. Questo ha aperto la strada a una collaborazione tra il ceto superiore e la classe lavoratrice conservatrice, che ha trovato un terreno fertile per una retorica populista che ha minato la solidarietà tra upstairs e downstairs.
Nel contesto odierno, le strutture sociali stanno cambiando in modo irreversibile, e la "casa" metaforica sta diventando sempre più instabile. La visione di una società meritocratica, dove le opportunità sono alla portata di tutti, sembra ormai un sogno lontano, irraggiungibile per molti. La sfida, quindi, è di ripensare l'intero modello economico e sociale per affrontare questa crescente disuguaglianza. È necessario riscoprire il valore del "bene comune" e promuovere politiche che riducano la distanza tra upstairs e downstairs, restituendo speranza a chi si trova nella parte inferiore della scala sociale.
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